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L’altra notte ho fatto un sogno. O è stato un incubo? Fosse quel che fosse, come spesso succede nei sogni, ma anche negli incubi, a essere del tutto assente era una ben che minima razionalità, un qualsiasi criterio narrativo, ma soprattutto un seppur banale ed elementare senso logico. Spezzoni, insomma, schizofrenici spezzoni. Mettendoli comunque insieme, e rinunciando a voler trovare loro un fil rouge in grado di cucirli e di tenerli insieme, li racconterò così come mi si affastellano nella memoria.

Ricordo per prima cosa una strana macelleria. Era bella, tutta tirata a lustro e arredata con separè e divani. Per colmo di bizzarria onirica, qualcuno aveva pensato di aprirla all’interno di un lussuoso hotel. Cose che possono succedere, quantomeno nei sogni! Era molto affollata, con un gran viavai di gente. Altra nota curiosa era che sia i clienti, sia quelli dietro al bancone di vendita, si aggiravano in giacca e cravatta, abbigliamento abbastanza stridente con il loro lombrosiano aspetto: diffusamente ordinario, perlopiù pacchiano, con vistosi e marchiani esempi di volgarotto andante. L’immagine immediatamente successiva è quella dei cartellini appiccicati sui “tagli” in vendita. Erano prezzi altissimi, bulimici, del tutto in controtendenza con la deflazione del Paese: su tutti, ricordo quello di un paio di stinchi che contro ogni buonsenso erano andati via subito, al volo, nonostante costassero una cifra astronomica: 90 milioni di euro. Un prezzo giustificabile ovviamente soltanto in dimensione onirica in quanto del tutto illogico, figlio di un’inflazione ben diversa da quella di cui ci parlano i testi di economia. Era un’inflazione di ben altra natura e origine: psichiatrica, direi.

Fuori da quella macelleria c’era anche di peggio. Masse urlanti e muggenti, roba da manzoniano assalto ai forni, che premevano contro le porte e le vetrate di cristallo fumè nel tentativo di scorgere qualcosa all’interno: forse altri preziosi stinchi, mostose lombate, vigorose cosce o ancora – chissà? – pulsanti polpacci. Erano in tanti, quei disperati. Erano lì a centinaia, sotto il sole, in orario di lavoro. Molti di loro si tiravano dietro bambini dall’aria sperduta. Abbigliati con strane maglie a strisce, identiche a quelle dei padri, o con il collo avvolto da sciarpe dei medesimi colori che li facevano sudare nel gran caldo estivo, quei piccoli venivano per di più costretti dai rispettivi genitori a sorridere a ripetizione, immotivatamente, dentro a un telefonino, all’arrivo di ogni nuovo cliente: “Dai vieni qua, che facciamo un selfie con il mister”, dicevano mentre la folla si fendeva sotto le vigorose spinte di convincenti guardaspalle. Chi fossero tutti quei mister non l’avrei mai saputo dire; e con quell’angoscia, o proprio grazie ad essa, mi sono svegliato.

“Dio sia lodato – ho pensato subito – era soltanto un incubo!”. Ovvio: quei prezzi inverosimili dei tagli di carne, in tale stridente contrasto con quelle masse in apparenza senza lavoro sarebbero stati qualcosa di impensabile in un Paese normale. E soprattutto in un Paese con un barlume di morale. Così, per convincermi meglio, considerando che i numeri non hanno idee, non fanno sogni o incubi, ma sono sempre oggettivi, ho iniziato a fare qualche conto, consolidando via via la mia consolatoria considerazione.

Certo, era stato un incubo, non c’erano dubbi! Bastava fare qualche divisione. Con 90 milioni di euro, infatti, in un Paese normale, uno di quelli che dicevo, uno di quelli dotati di un barlume di morale, la Sanità pubblica è in grado di acquistare 22 strumenti per la risonanza magnetica. Oppure 45 apparecchiature per fare la Pet, quell’esame che scova tumori altrimenti invisibili attirandoli allo scoperto con la lusinga dello zucchero di cui sono ghiotti. Sempre dalla stessa cifra saltano fuori 60 macchinari per la Tac, la tomografia assiale computerizzata, e addirittura 90 mila defibrillatori cardiaci in grado di salvare tante vite. Non solo: con quei 90 milioni di euro, altro che comprarsi due banali stinchi! Ci si paga lo stipendio annuo a 3 mila nuovi medici di Pronto Soccorso (è un calcolo a spanne, ma sul lordo!) o si passa un pur magro assegno mensile ad almeno 5 mila di quei meravigliosi ragazzi che fanno ricerca medica, magari sul cancro, pur se senza un contratto a tempo indeterminato. Perché questo a volte succede, purtroppo, perfino in quei Paesi ideali, quelli dotati di un barlume di morale!

Ora però esco dal sogno, o dall’incubo che fosse. E anche dalla metafora. Torno alla cruda e per me inaccettabile realtà. Lo faccio dato che ormai tutti avranno capito a che cosa mi riferivo e che cosa è stato a disturbarmi il sogno, quello fatto a occhi ben aperti. Prima di ogni altra cosa prevengo la replica scontata di quelli saccenti, di coloro che davanti a simili considerazioni ti dicono con ironico distacco: “Ma quei 90 milioni sono soldi privati! E questo è il libero mercato, bellezza!” Che i soldi in questione non siano pubblici, mi guardo bene dal controbatterlo dal momento che è vero: sono soldi privati, ma questo non mi impedisce di pensare che magari, con un sistema fiscale all’americana come quello che consente l’esistenza di fondazioni benefiche del tipo di quella dei coniugi Gates, potrebbero essere utilizzati (e scaricati) per ben più nobili scopi sociali. Quanto al fatto che questo sia il mercato, non metto in dubbio nemmeno questo. È semmai sul fatto che possa ancora essere definito “libero” che avrei le mie pesanti riserve. Perché di libero non ha ormai più nulla: lo definirei semmai paurosamente “anarchico”, immancabilmente “cinico” e soprattutto irrimediabilmente “immorale”. Più che mercato, direi “mercimonio”; qualcosa che farebbe dare di stomaco anche al povero Adamo Smith.

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