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Ah Verbier che ha le nuvole più curiose del mondo – sarà questo luglio sempre in maschera, oppure la musica – che stanno basse sugli uomini e fanno una parrucca barocca ai pini, e scendono perfino in strada e quando scendono si sdraiano in mulinelli che coprono i piedi e i polpacci e fan finta di essere acqua; sarà la musica sì, saranno questi ragazzini furiosi che girano con i violoncelli nelle custodie coi cuori fatti a pennarello e le firme degli amici, ragazzetti che sembrano normali e invece non lo sono, sono furiosi, spaccano i crini degli archetti, ridono in settanta mentre suonano Tristano e Isotta o un gruppuscolo di lagne di Mahler, e patiscono sul palco d’esser disturbati dalle star.

Ma questa è la dura legge del festival e quindi ah Verbier paradiso svizzero di fondazione per sciatori e ricchi poco giù dal Gran San Bernardo, a 1531 metri e al prezzo di settecento tornanti senza vedere nemmeno una mucca, come si fa a fare una Woodstock della musica classica qui? E invece la fanno da 23 anni e così Verbier si fabbrica la sua tradizione, a dire il vero tutto è cominciato con le piste da sci, che però a luglio sono asciutte e così un’indianata di funivie minuscole, trasporta vecchi che fanno le camminate leggere e ciclisti estremi, entra ed esce dalle nuvole, salire salire, pidocchi nelle parrucche dei pini, salire salire e oltre gli alberi nessuno sa più dove sono.

Ah Verbier che ha capito che la musica è fatta di ragazzi, un festival e un pugno di stelle per fare cartellone, due orchestre residenti, una di una settantina di elementi dai 18 ai 28 anni, l’altra (57 ragazzi da 18 nazioni) dai 15 ai 18, ma la differenza non si sente.

Ah Verbier che una differenza invece si vede quando sale sul palco una violinista coreana quasi settantenne e famosa, Kyung Wha Chung, che a otto anni era già come loro e poi si è rotta un mignolo e poi per dieci anni non ha più suonato e poi ha ricominciato, virtuosa sì forse anche troppo, in mezzo ai ragazzi furiosi, tanto che la sera in cui suonano insieme i concerti sono due, uno in cui lei prende a schiaffi il violino, scuote su Brahms tutta la sua bravura come un sacchetto di monete d’oro e l’orchestra s’inconiglia in un angolo e non si sente quasi più; ma poi nel secondo tempo la coreana se n’è andata ed è come far saltare una pentola a pressione, che loro son qui per suonare e non fare gli chaperon. Salta con uno scroscio anche una nuvola grassa sopra il teatro e allora incoraggiati dall’incessante applauso della pioggia tutti insieme si lanciano dalla rupe di Berlioz, fra le braccia della Fantastique, e sul palcoscenico l’orda barbara dei settanta maggiorenni ondeggia potente e sbilenca come un’onda presa fra dieci correnti, e il loro direttore Charles Dutoit, galantuomo prudente con la Chung che gli s’agitava al fianco, schiocca finalmente la briglia: loro s’impennano, sono disordinati ma hanno una voglia, una voglia di putiferio, ma sì, che la musica perfetta è un controsenso, la musica perfetta è dei morti perfetti, non delle loro braccia a gomiti aperti sugli archetti, anche se i maschi hanno tutti il gilè come i camerieri e le femmine fanno quel che gli pare come i gatti, bum bum bum i rintocchi selvatici dei timpani e le scudisciate acerbe degli ottoni, bum bum, e archi che non ti aspetti perché, all’inverso, tengono gli attacchi lenti; così la pioggia che finalmente svanisce fa posto nell’aria a tutta quella potenza giovanile con la farcia di questa dolcezza, un legato continuo connaturato al loro braccio.

Ah Verbier dei piccoli, anzi soprattutto i piccoli, i 15-18 enni, che hanno un primo violino, Cigdem Tuncelli, Svizzera di Pully, classe ’99, che tiene lì la partitura a fare il muschio perché non la legge mai; e un secondo violino che viene dalla Cina e che è nata a Milano, Xiaoqing Yu, classe 2000, e a sei anni era già solista nell’orchestra del conservatorio; davanti a noi sembrano due serpenti danzanti nella piazza Jamaa El Fnaa di Marrakech, e il direttore Daniel Harding, un supereroe che avremmo detto più alto ma ha una faccia bellissima, le guida, le fa ondeggiare e impone benedizioni mettendo loro la bacchetta fin sul naso, e le manda di qua e di là, a mescolare gli archetti con l’aria, e la musica signori, che musica, la nenia suprema sublime di Mahler nonostante un’altra stella, il baritono Stephan Genz, si metta fra loro e noi, il pubblico, con una soavità certo certo necessaria, ma che non abbiamo chiesto. E come era successo la sera prima con l’orchestra maggiore, anche Genz finisce, incassa un applauso e si toglie da davanti a noi e soprattutto a loro, finalmente padroni di servirci il Tristano più incasinato che si può, presente e imperfetto: l’indicibile di Wagner che Wagner fa loro dire in quel modo celeste in cui solo l’indicibile si può dire.

Ah Verbier, anche quando tutto questo per i critici musicali che benedetti loro hanno l’orecchio come uno scafo molto navigato, dicevo quando per loro che le cose le sanno tutto questo rappresenta un lodevole insieme scalcinato, benedetti loro che sanno distinguere le sincronie e i forti e i piano, ecco noi invece diciamo è un disordine che va bene, e loro, i piccoli e i più grandi, han detto la-scia-te-ci suo-na-re in pace, stenderemo un carpet alle stelle per il pubblico e per il curriculum, ma poi forte e piano lo ripetiamo e ripetiamo, con le trombe e con le viole, che questa non è una musica per tromboni, tranne quelli che suoniamo.

verbier

Verbier come Woodstock. Giovani talenti sinfonici e furiosi

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