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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Troppo poco, troppo tardi. L’eventuale impegno internazionale per “pacificare” la Libia è ormai un impegno che, con tutta probabilità, non porterà a nuovi dati positivi in quell’area.

Vediamo i dati: dovrebbero esserci attualmente circa 6500 militanti dell’Isis in Libia, il doppio di quanto si pensava appena pochi giorni fa. Il loro numero sta comunque crescendo rapidamente.

Il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi sta trasferendo in Libia e in Tunisia, per via terra o addirittura per mare, tutti quei terroristi che, grazie alle vittorie russe e dell’Esercito Arabo Siriano di Bashar al-Assad, non riescono più ad arrivare sul territorio dell’Isis dai confini siriano e turco.

Ormai i siriani di al-Assad sono a poche decine di chilometri da Raqqa, la “capitale” del califfo.

Le “cellule” di al-Baghdadi erano però già presenti sul territorio libico prima della riscossa siriana e della presenza russa, mentre la caduta di Muammar Gheddafi ha aperto le porte, da subito, a gruppi jihadisti come Ansar al Sharia, che uccise il console americano a Bengazi nel settembre 2012, e Al Qaeda nel Maghreb Islamico, che già il colonnello della Sirte aveva represso nella Libia meridionale.

Potrebbero essere arrivati nel territorio dell’Isis almeno 36.000 combattenti stranieri, i cosiddetti “foreign fighters”, da almeno 120 Paesi diversi.

La logica strategica di al-Baghdadi è quindi chiara: fare della Libia la base di partenza per portare la guerra, e non solo il terrorismo, che è una specifica strategia bellica, nella penisola eurasiatica, utilizzando una sequenza di azioni che saranno, con ogni probabilità, prima il terrorismo vero e proprio, poi la manipolazione delle vaste minoranze islamiche presenti in Ue, poi la massificazione dello scontro e, infine, l’inizio di una guerriglia interna all’Europa.

Che il governo “unitario” libico si insedi o meno è di scarsa importanza, per l’autonominatosi califfo.

L’importante è che non abbia potere reale sul territorio e che non unifichi davvero tutte quelle numerosissime “kabile”, tribù, che Gheddafi aveva duramente posto sotto il suo unico comando.

Se avverrà un intervento europeo o, per essere più esatti, francese, italiano e britannico, con il sostegno degli Usa, la sequenza dei fatti diviene ancora più prevedibile.

Ci sarà una richiesta di aiuto del governo unitario libico, che non per questo certo metterà a tacere le discordie e gli interessi divergenti al suo interno, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, quella organizzazione che Francesco Cossiga definiva un “ente inutile”, poi arriveranno i militari, magari con un comando unitario dell’Italia, ad “addestrare” la polizia locale, con qualche operazione dei Corpi Speciali.

Anche tutto ciò avviene troppo tardi e troppo poco.

Unire insieme Gran Bretagna, Francia e Italia in una impresa di peacenforcing in Libia è politicamente possibile, ma operativamente poco sensato.

Ed è bene ricordare che la dottrina delle “operazioni di pace” onusiana è stata inventata quando il terrorismo islamico o, per meglio dire, il jihad, non era ancora apparso all’orizzonte.

Per l’Isis, la Libia è il secondo fronte del suo peculiare jihad, la base per controllare il petrolio che fu la fonte del benessere libico durante la dittatura, per utilizzare i suoi pozzi e vendere gli idrocarburi di contrabbando, grazie peraltro all’abbassamento dei prezzi al barile e alla copertura di alcuni Paesi produttori che “mescolano” il loro petrolio con quello comprato al mercato nero del jihad.

L’Isis ha una sua strategia globale, l’Europa no.

Gli Stati Uniti, poi, manifestano chiaramente di non volersi occupare più del Medio Oriente in alcun modo, e l’Ue è spezzata in almeno due fronti interni sull’immigrazione, mentre la Gran Bretagna, che pure dovrebbe partecipare alle azioni sul terreno libico, sta lentamente ma sicuramente uscendo dall’Unione europea.

Sta avvenendo oggi la ripetizione di una vecchia storia, all’origine dello stesso Islam: alla morte del profeta Maometto, bizantini e impero iranico si erano sfiniti con una lunga guerra tra di loro, e fu facile per il califfo al-Baghdadi catturare l’impero iraniano e la sua capitale Ctesifonte, per poi dirigersi in Egitto e da lì fino all’Andalusia.

Sono state le divisioni tra i cristiani a favorire l’arrivo del primo jihad e molti cristiani orientali, trattati come eretici dal basileus bizantino, preferirono il nuovo regime arabo alla repressione dell’Impero d’Oriente.

Oggi, facile paragone, saranno le divisioni tra gli occidentali e le loro debolezze interne a favorire, Dio non voglia, l’arrivo di questo nuovo jihad.

Quindi, tornando ai nostri giorni, l’Italia non vuole i barconi di migranti sulle sue coste, ed è per questo che vuole andare a “portare la pace” in Libia.

Troppo poco, bisogna gestire la destabilizzazione di tutto il Sahel che produce i migranti, distruggere i barconi è una ingenua ripicca. State tranquilli, hanno i soldi per ricomprarli.

Non sembra poi che la questione petrolifera tocchi molto gli attuali decisori italiani, i quali credono alle “magnifiche sorti e progressive” dei cosiddetti riformisti iraniani appena eletti ma, come diceva Voltaire, “i fatti hanno la testa dura”.

I riformisti di Hassan Rouhani, a Teheran, hanno avuto la maggioranza, con 92 seggi, agli “indipendenti” ne sono andati 44, ai contrari all’accordo del P5+1 sul nucleare iraniano sono andati 115 seggi che, se mettiamo in conto i 39 che andranno al ballottaggio in aprile, rendono la vittoria dei favorevoli all’accordo con l’Occidente meno brillante di come si pensi.

Senza aggiungere che Rouhani, forte di una vittoria politica, detterà subito le sue condizioni all’Occidente.

La Francia non vuole di fatto le operazioni in Libia. Già è presente in Sahel, sta facendo operazioni di controterrorismo sul suo territorio, opera ormai anche in Senegal e in Mali; non ha, probabilmente, la forza per gestire bene la situazione sul campo in Libia.

La Gran Bretagna ci sarà perché vuole tentare di riprendersi un pezzo di Mediterraneo. Non ci riuscirà, ma non vuole certo che Francia e Italia si riprendano la “sponda fatale” libica.

Tre interessi divergenti di tre Paesi che dovrebbero combattere insieme.

Gli Usa useranno droni, che non hanno famiglia e soprattutto non votano, e pochissimo altro.

Ancora una volta troppo poco, troppo tardi.

Detto con la mia consueta brutalità, occorre che una logica più ampiamente strategica, e non pubblicitaria-demagogica, venga riutilizzata in Medio Oriente e nel Mediterraneo.

Se gli Usa se ne vanno, e non credo che il nuovo presidente sarà più interventista di Barack Obama, occorre che le piccole e non più medie potenze europee trovino un nuovo attore globale.

Da soli non ce la faranno mai, con i risultati che non vogliamo nemmeno immaginare.

Occorre quindi vedere il quadro libico nel suo contesto mediterraneo, che è ormai un teatro strategico unificato.

L’Isis, che è un gruppo terrorista-jihadista opera, come tutte le armate similari, in nome e per conto di uno Stato o più Stati.

Questi vogliono alcune cose, ma lo dicono in modo più educato: vogliono il petrolio libico, vogliono un governo, a Tripoli o a Tobruk poco importa, del tutto subalterno ai loro interessi, vogliono infine utilizzare questa fase “liquida” del terrorismo jihadista per eliminare gli Stati maghrebini autonomi amici dell’Occidente (e della Russia).

Ovvero la Tunisia, l’Algeria, il Marocco e, con un modulo differente, l’Egitto, che è anche un choke-point mondiale grazie al canale di Suez.

L’Ue mostra una debolezza strutturale che fa pensare ad un rapido decadimento geopolitico ed economico, gli Stati Uniti stanno subendo la loro ciclica tensione isolazionista; e allora il mondo sunnita vuole prendersi quel Maghreb per minacciare l’Europa, inondarla di immigrati, controllarla con il petrolio nordafricano che farà, tra poco, concorrenza a quello russo (e iraniano).

Tutte le divisioni (non solo) occidentali che favoriscono Isis in Libia

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