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Che ci si trovi in Italia o in un qualsiasi altro paese, c’è un elemento fondamentale da cui bisogna partire quando si parla di rifiuti radioattivi. Un concetto in fondo abbastanza semplice e intuitivo: visto che questi rifiuti esistono – perché li abbiamo prodotti in passato, e continuiamo a produrli anche ora – è necessario dotarsi di un’infrastruttura dove poterli smaltire in sicurezza. “Non è una scelta ma una decisione inevitabile”, dice Fabio Chiaravalli, il direttore del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico Sogin, la società al 100% pubblica chiamata allo smantellamento dei vecchi impianti nucleari italiani e alla gestione dei rifiuti radioattivi prodotti nel nostro Paese presieduta da Giuseppe Zollino e guidata dall’ad, Roberto Casale.

OPERAZIONE “DEPOSITO NAZIONALE”

La maggior parte degli Stati ha già realizzato o localizzato il proprio “deposito nazionale” mentre altri – come l’Italia – si stanno muovendo ora in questa direzione, anche sulla base di quanto previsto dalla normativa europea. L’iter è già cominciato, l’obiettivo è di giungere alla costruzione di questa struttura nel giro di alcuni anni, in modo da dare così una soluzione definitiva al problema dello smaltimento di questi rifiuti, oggi sparsi in decine di depositi temporanei. Prima, però, bisognerà individuare l’area geograficamente e geologicamente giusta per un’opera del genere e – soprattutto – trovare un punto d’incontro e di mediazione con le popolazioni che quel luogo lo abitano.

I PRESUPPOSTI DELL’OPERAZIONE

Un’operazione evidentemente complessa, per la buona riuscita della quale – spiega Chiaravalli – occorreranno “dialogo, condivisione e trasparenza”. Il tutto – sottolineano con forza in Sogin – avendo ben chiari due presupposti di fondo: l’obbligatorietà dell’impianto – dalla cui realizzazione non si può in alcun modo prescindere – e l’assenza di rischi per le persone e l’ambiente circostante. “Strutture di questo tipo eliminano alla radice il problema della radioattività” racconta Chiaravalli “perché sono costruite in maniera tale che i rifiuti – qualsiasi cosa accada – rimangano isolati dall’ambiente per il tempo necessario perché la radioattività decada”.

NON AVEVAMO CHIUSO CON IL NUCLEARE?

A fronte della dichiarata necessità di realizzare il deposito, è naturale chiedersi perché il nostro Paese sia ancora alle prese con il tema del nucleare, pur avendolo gli italiani bocciato per due volte alle urne, con i referendum del 1987 e del 2011. La risposta è duplice: da un lato, infatti, ci sono i rifiuti radioattivi derivanti dallo smantellamento dei vecchi impianti nucleari ormai fermi, dall’altro, invece, quelli costantemente prodotti dalle attività industriali, di ricerca o di medicina nucleare effettuate ogni giorno sul nostro territorio. I primi rappresentano complessivamente circa il 60% dei rifiuti che saranno smaltiti nel nuovo deposito mentre i secondi il restante 40%.

QUALI RIFIUTI PER IL DEPOSITO NAZIONALE?

Nel deposito italiano saranno smaltiti definitivamente 75.000 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività, ai quali servono 300 anni per perdere la radioattività e decadere. In via provvisoria – finché non sarà individuato e realizzato un deposito geologico europeo – vi saranno anche custoditi 15.000 metri cubi di rifiuti ad alta attività, quelli che per decadere impiegano invece centinaia di migliaia di anni. Così duraturi, quest’ultimi, da dover essere isolati in un deposito in profondità di tipo geologico.

LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI

Per eliminare qualsiasi possibilità di conseguenze sulle persone o l’ambiente, lo smaltimento avverrà attraverso un sistema che prevede quattro diverse barriere volte a garantire la gestione in totale sicurezza. I rifiuti – bloccati in una speciale malta di cemento – saranno trasportati al deposito in contenitori metallici chiamati manufatti. Quindi, questi manufatti saranno inseriti e cementati in “moduli” di calcestruzzo speciale – progettati per resistere almeno 300 anni – che saranno a loro volta immessi in celle di cemento armato le quali, una volta riempite, saranno sigillate. Infine, le strutture saranno ricoperte da materiali che le renderanno impermeabili all’acqua e da uno strato d’erba posto sulla sommità che le farà somigliare a una collinetta artificiale.

IL DEPOSITO E LE POSSIBILI AREE

Al momento sono alcune decine le aree ritenute potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale. Zone distribuite in tutto il territorio italiano e individuate sulla base dei criteri fissati dall’Ispra, l’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale. Dall’estate del 2015 la mappa in cui sono indicate le possibili aree, redatta da Sogin e validata da Ispra, è nelle mani dei ministeri competenti – quello dello Sviluppo Economico e quello dell’Ambiente – da cui si attende l’ok per la pubblicazione. Solo a quel punto la procedura entrerà nel vivo con l’avvio della consultazione pubblica che coinvolgerà tutti gli interessati – i cittadini, gli enti locali e le associazioni – per arrivare, infine, alla scelta del sito. Una decisione politicamente non facile, sulla quale il governo di Matteo Renzi sta facendo un po’ di melina per evitare di innescare adesso un dibattito del genere, con tutte le possibili ripercussioni in termini di proteste e polemiche.

IL CONSENSO DELLE POPOLAZIONI

Valutazioni politiche a parte, c’è la convinzione che sia possibile realizzare il nuovo deposito con il consenso delle popolazioni locali. “Confidiamo che la condivisione dell’intero processo porti alcuni territori ad avanzare la propria candidatura” confida Chiaravalli. Perché ciò avvenga, ci sarà  in tutte le regioni coinvolte una fase appositamente dedicata al dibattito pubblico (impostata come il débat public alla francese), nella quale far sedere intorno allo stesso tavolo i rappresentanti della società, quelli delle comunità e degli enti locali e i vari soggetti a vario titolo interessati dalla realizzazione del deposito. Si svolgerà poi un seminario nazionale, concluso il quale saranno raccolte le osservazioni e gli ulteriori approfondimenti che porteranno alla carta finale delle aree idonee. Una procedura all’insegna delle tre parole chiave – dialogo, condivisione e trasparenza – ribadite come un mantra in Sogin, con la quale spiegare nei dettagli il progetto, chiarire a cosa servirà il deposito e come funzionerà, fugare i dubbi e le inevitabili paure e indicare anche le ricadute positive sul territorio.

LE RICADUTE ECONOMICHE

Dalla realizzazione dell’opera deriveranno, infatti, anche benefici di carattere economico e fiscale per chi vive nella zona individuata al termine della procedura di localizzazione. Sul sito del deposito nazionale (www.depositonazionale.it) si legge che l’indennizzo verrà erogato per una doppia ragione: “per la porzione di territorio che sarà occupata per un lungo periodo, ma anche per riconoscere una forma di valore aggiunto alle comunità che accettano di partecipare alla realizzazione di un servizio essenziale per lo sviluppo del Paese”. Inoltre, durante la fase di costruzione l’opera darà lavoro a 1.500 persone mentre – una volta ultimata la realizzazione – ne serviranno 750 per l’esercizio ordinario. Nascerà poi insieme al deposito anche un parco tecnologico per la ricerca, formato da un centro studi, un laboratorio ambientale e una scuola di formazione.

Ecco la mappa dei produttori e/o detentori dei rifiuti radioattivi

Produttori e-o detentori rifiuti radioattivi

 

Sogin, tutti i dettagli sul deposito nazionale dei rifiuti radioattivi

Che ci si trovi in Italia o in un qualsiasi altro paese, c’è un elemento fondamentale da cui bisogna partire quando si parla di rifiuti radioattivi. Un concetto in fondo abbastanza semplice e intuitivo: visto che questi rifiuti esistono – perché li abbiamo prodotti in passato, e continuiamo a produrli anche ora – è necessario dotarsi di un’infrastruttura dove poterli…

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