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Proseguono gli approfondimenti di Formiche.net su sfide e incognite dell’editoria. Dopo le proposte e le provocazioni di Roberto Sommella, ecco l’analisi di Vittorio Liuzzi

Qualche sera fa ho visto Spotlight. Gran bel film. La storia dell’inchiesta condotta dalla squadra di giornalisti investigativi del Boston Globe sull’Arcidiocesi di Boston. Quattro giornalisti “affamati” e un direttore outsider rispetto all’establishment cittadino, che condussero, con etica, indipendenza e professionalità impeccabili, un’inchiesta che costrinse l’Arcidiocesi a render conto delle proprie azioni. La credibilità del Globe aveva piegato quella della Chiesa. Era il 2001.

2016. Verrebbe da partire da un paradosso: che senso ha cercare un modello di business per un’industria che non esiste più? Formiche.net aveva riferito, in maggio, dello studio del Tow Center for Digital Journalism della Columbia Journalism School Post Industrial Journalism: Adapting to the Present, il cui assunto di base era che, per l’industria editoriale, “il futuro è già qui e non esiste più un’industria editoriale”. In sintesi, l’affermazione commerciale di Internet ha sconvolto la struttura della comunicazione e dell’informazione; e per l’industria editoriale si è rotta l’integrazione verticale del prodotto. La catena che va dalla produzione dei contenuti alla loro distribuzione si è frammentata per i mille canali offerti dalla più grande infrastruttura mai nata nella storia umana. Godiamo dell’opportunità di accedere a un’infinità di informazioni gratuite e abbiamo tutti – individui, imprese, organizzazioni – l’opportunità di farci editori. E questo ha fatto anche sì che si comprimesse progressivamente uno dei pilastri che alimentano l’editoria: la pubblicità. Una fonte d’introiti, che insieme alla vendita del prodotto editoriale, è stata – per tutto il XX Secolo – un vero e proprio sussidio tributato dalle imprese alla stampa per accedere al pubblico che questa copriva. Oggi, le imprese, grazie ai canali che possono aprire in rete, dialogano direttamente con il pubblico. In tutto questo, i giganti dell’economia digitale hanno cominciato a mettere le mani sui contenuti prodotti dalle testate giornalistiche. “Instant articles” di Facebook è l’esempio più eclatante di questo fenomeno.

I social media hanno scoperchiato, dal punto di vista dell’informazione, un vero vaso di Pandora: quello dell’autoreferenzialità. Come spiega Vincenzo Cosenza sul suo blog, il “trust Barometer” – sondaggio annuale su un campione di 33.000 persone di età compresa tra i 25 ed i 64 anni, pubblicato dall’agenzia di relazioni pubbliche Edelman – rivela che il 73% degli intervistati considera attendibili soprattutto le notizie condivise sui social media da amici e familiari. La fiducia in un contenuto condiviso da un giornalista, per intenderci, si ferma al 38%; 7 punti sotto quella dell’amministratore delegato di una grande impresa. Ma, soprattutto, in generale, il 71% ha maggior fiducia nei motori di ricerca, il 69% nella tv (ma gli utenti fino a 24 anni non sono censiti), il 45% nei quotidiani. È sempre più la tua visione del mondo a orientare il modo in cui ti informi. E la rete è uno specchio in cui puoi trovare continue conferme.

A quindici anni dai giorni di Spotlight, facendo un rapido giro di orizzonte, il panorama dell’editoria nel mondo accende segnali d’allarme a ogni latitudine. La crisi è globale e, probabilmente, il primo dato di realtà da accettare è che i margini di profitto dell’editoria non torneranno mai ai livelli dell’epoca in cui quest’industria monopolizzava l’interesse del pubblico. Il secondo è che, oggi, motori di ricerca e social media sono veicoli di visibilità inevitabili, perché è lì che il pubblico si informa. Il terzo è quello di imparare una lezione dalle grandi compagnie tecnologiche: quella di sperimentare senza fine, sbagliare, fermarsi, ricominciare; Google, Facebook e tutti gli altri protagonisti della rete hanno avviato e abortito progetti senza soluzione di continuità per tutta la loro storia.

La sostenibilità può passare, insomma, da strade diverse: che siano paywall, abbonamenti, native advertising o soluzioni ancora da inventare (che comprendano o meno prodotti stampati). Da notare che il Digital News Report 2015 – prodotto dal Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford – sostiene che non emerga una crescita particolare della disponibilità a pagare contenuti online – fatta salva quella di lettori fidelizzati – anche se c’è una crescita dei ricavi. In particolare, del campione sondato, ha pagato per notizie online: il 6% in Gran Bretagna; il 7% in Irlanda e Germania; il 10% in Francia e Giappone; l’11% in Usa, Spagna e Australia; il 12% in Italia; il 13% in Danimarca; il 14% in Finlandia. Nel Regno Unito, quattro anni fa, la maggioranza dei pagamenti erano di modeste dimensioni e una tantum. Oggi, quasi tre quarti del totale (71%) sono per abbonamenti fissi (solo digitale, digitale/cartaceo o altre combinazioni) e la spesa media mensile è cresciuta a circa 10 sterline. Quasi il doppio della spesa per le news online in Spagna (5 euro) dove è più alto il livello dei pagamenti una tantum. Domande specifiche poste su quattro mercati (GB, Usa, Spagna, Australia) dimostrano che pochi di coloro che già non pagano sono disponibili a spendere per acquistare news via rete. Infine, per quel che riguarda la pubblicità online, molti utenti (il 47% negli Usa) usano un ad blocker, software che blocca la comparsa di inserzioni.

Resta una questione: come conquistare, in questa rete dell’autoreferenzialità, la fiducia del pubblico che non è più scontata come un tempo. E mai più lo sarà.

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