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Questa sera sono stato ospite di un interessante incontro con la sezione berlinese del Labour Party per discutere insieme del Referendum di giugno su quello che giornalisticamente viene definito Brexit. Ossia l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

In questo incontro ho avuto modo di imparare molte cose sul funzionamento del sistema di voto inglese, soprattutto per chi vive all’estero. Rispetto a noi, infatti, gli inglesi che vivono al di fuori della madrepatria hanno la possibilità di votare solo previa registrazione e solo se la loro permanenza al di fuori della Gran Bretagna è inferiore a 15 anni. In più, però, hanno la possibilità di delegare per il voto, anche qua previa richiesta alla propria constituency.

La domanda centrale è stata, ed è, cosa può significare un Brexit per la Gran Bretagna, ma soprattutto per l’Unione Europea?

Secondo un’indagine realizzata dalla Bertelsmann Stiftung un Brexit costerebbe alla Gran Bretagna circa il 14% del proprio prodotto interno lordo. Con una perdita di oltre 300 miliardi nel corso degli anni successivi all’uscita dall’Unione Europea. Sembrerebbe quindi un colpo molto duro all’economia britannica prima di tutto, mentre gli effetti negativi per l’UE rimarrebbero contenuti.

Questa constatazione ci dice in realtà molto di più di quanto effettivamente dice: prima di tutto che la Gran Bretagna non appare indispensabile per il benessere economico dell’Unione Europea e che il suo ruolo egemone è finito già da molto tempo e anzi, che è proprio lei a rimetterci di più da una separazione. In secondo luogo ci dice anche che un Paese da solo non ha la forza, non più, di competere con le grandi potenze economiche emergenti, come Cina, Brasile e India. Paesi che sono grandi e popolosi molto più della vecchia e stanca Europa, che sono giovani e crescono a ritmi che noi ci possiamo solo sognare. Per non parlare della Russia, potere ri-emergente.

Se dal punto di vista economico gli impatti sarebbero relativamente tenui per l’UE, dal punto di vista ideologico e politico sarebbe tutta un’altra storia.  Eh sì, perché un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea segnerebbe, dal mio punto di vista, il primo passo verso un processo di disintegrazione del progetto europeo stesso. Non credo di esagerare nell’affermare questo perché si tratterebbe di un caso unico, mai realizzato prima, che apre scenari incerti e che però sarà sicuramente, come già sta avvenendo, strumentalizzato dai partiti nazionali euroscettici e di destra, soprattutto.

Diranno che se è uscita la Gran Bretagna, paese di lunga tradizione democratica, allora è possibile anche per altri. Verranno messe in discussione le basi stesse del progetto europeo. Calerà il sipario su un percorso durato oltre settant’anni di unificazione nelle diversità, come recita il motto stesso dell’UE. Sarà il primo passo per un ritorno al passato in cui gli Stati Nazionali torneranno a giocare un ruolo, ma da spettatori e non più da protagonisti. Come si è visto, l’Europa non è più il centro del mondo, la geografia del potere economico e politico si è molto modificata negli ultimi cento anni. E anche dal punto di vista demografico abbiamo ormai perso terreno: siamo un continente invecchiato e che invecchia, dove la quota di anziani cresce e dove il saldo positivo delle nascite è dovuto alla presenza di immigrati.

L’Unione Europea è un progetto non ancora compiuto. Illudersi che le cose siano andate bene fino ad oggi è mentire a se stessi. L’Unione Europea non funziona bene e non funziona bene anche e soprattutto perché la logica nazionalista non ha mai ceduto il passo. Riprendendo ancora una volta le parole di Romano Prodi, questa che conosciamo non è una vera Unione di Paesi, ma una confederazione di egoismi. E l’egoismo unito alla superficialità produce effetti devastanti.

Che alla base del progetto europeo ci sia, come ha scritto qualche tempo fa Panebianco sul Corriere della Sera, non la volontà di stare insieme per non farsi la guerra, ma la consapevolezza di stare insieme perché non ci si poteva più fare la guerra, mi interessa poco. Quel che conta è che per oltre settant’anni abbiamo goduto di pace, sviluppo e benessere e che questa situazione può permanere solo con un’Europa in cui ci si parla e si sta insieme. Il passo indispensabile da fare affinché questo progetto sia non solo realizzato, ma anche ben funzionante, è abbandonare gli egoismi, ripensare un modello di sviluppo sociale ed economico che si lasci alle spalle il turbo-liberismo a cui ci siamo abituati, e ripensi un sistema di partecipazione inclusivo, solidale e consapevole. Serve il passo in avanti che sognava, tra gli altri, proprio un primo ministro inglese, Winston Churchill, con il suo famoso discorso del 1946 a Zurigo sugli Stati Uniti d’Europa.

Brexit e futuro dell'Unione Europea

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