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La Brexit si colloca in uno scenario internazionale molto articolato, in piena evoluzione, che interseca le prossime elezioni americane e le relazioni con la Russia. Inciderà, inevitabilmente, sugli sviluppi dell’Unione europea: da subito, ad esempio, ciò che era stato concesso dal Consiglio europeo di febbraio scorso alla Gran Bretagna in materia di immigrazione e di welfare, dichiarandolo esplicitamente conforme al Trattato di Lisbona, potrà essere richiesto dagli altri Paesi dell’Unione che sono alle prese con i medesimi problemi che erano stati sollevati da Londra.

La Gran Bretagna è uscita da una impasse che durava ormai da troppo tempo. Se, infatti, gli interessi economici e finanziari militavano tutti a favore della sua permanenza all’interno della Unione Europea, quelli geopolitici e strategici mostravano tutti un segno opposto. Un’Europa politica, costruita come Unione Economica e Monetaria attorno all’euro ed all’asse franco-tedesco, non era compatibile né con la partecipazione dell’Inghilterra all’Unione, nè con le tradizionali alleanze transatlantiche, né con le prospettive dei rapporti con la Cina.

I primi a doversi preoccupare delle implicazioni geopolitiche della Brexit sono i tanti che in questi anni hanno sempre auspicato la marginalizzazione della Gran Bretagna rispetto all’Unione europea, in quanto era l’unico Paese in grado di opporsi alla prospettiva di una Unione guidata dall’asse franco-tedesco. Ed è stata la accelerazione di questi ultimi anni, tutta costruita attorno all’Eurozona, ad aver determinato sin dal dicembre 2011 la autoesclusione della Gran Bretagna dal processo di rafforzamento dell’Unione economica e monetaria deciso a Bruxelles con l’approvazione di un “Accordo a 26”. Questa intesa, che si è realizzata con i Trattati internazionali istitutivi dell’ESM e del Fiscal Compact, e poi con la attribuzione alla Bce dei poteri di supervisione sulle banche sistemiche dell’Eurozona, prevede ulteriori passi entro il 2025 al fine di completare l’Unione Economica e Monetaria, come è analiticamente descritto nel “Rapporto dei quattro Presidenti”. Coloro che tifavano a favore della marginalizzazione della Gran Bretagna, erano riusciti a confinarla in una sorta di limbo politico: stava dentro l’Unione, ma incaprettata, legata dalle convenienze economiche e finanziarie, ma estranea al processo di costruzione dell’Unione politica.

La progressiva identificazione dell’Unione Europea con l’Unione Economica e Monetaria è stata dirompente, non solo perché prelude ad una rappresentanza unitaria verso l’esterno dal punto di vista commerciale, valutario, economico e finanziario, ma soprattutto perché implica una fisionomia più forte sotto il profilo sia politico che militare. E’ emersa così la duplice estraneità della Gran Bretagna rispetto all’intero processo: se per un verso non ha avuto alcun ruolo nel processo di consolidamento dell’Eurozona, rimaneva comunque vincolata dall’articolo 42 del Trattato di Lisbona, che  impone agli Stati membri di intervenire con tutti i loro mezzi qualora uno o più Stati venissero attaccati da entità extra UE. È dunque sulla politica estera, e soprattutto sulla prospettiva di creare un esercito comune su cui il Presidente della Commissione Junker si batte da tempo, che il disallineamento è divenuto totale: riguarda il ruolo della Nato e l’intera struttura delle relazioni con gli Usa.

Dal punto di vista americano, le relazioni transatlantiche seguono una duplice polarità: da una parte, c’è l’alleanza politico-militare, fondata sul Trattato del Nord Atlantico; dall’altra, ci sono le forti relazioni economiche, commerciali e finanziarie, che si rafforzerebbero con la stipula del TTIP. Quest’ultimo trattato, che rappresenta uno degli obiettivi principali della Presidenza Obama, legherebbe le due sponde dell’Atlantico in un sistema economico e finanziario pienamente interconnesso ed indissolubile. L’isolamento politico attuale della Russia, derivante dalle sanzioni adottate per via dell’annessione della Crimea in violazione del diritto internazionale, verrebbe raddoppiato e reso definitivo con l’esclusione della Russia dal TTIP. Di converso, il TPP transpacifico già esclude la Cina. Il quadro delle relazioni economiche e finanziarie americane con i suoi tradizionali alleati sarebbe consolidato su entrambi i versanti, Atlantico e Pacifico, emarginando da una parte la Russia e dall’altra la Cina.

Questa strategia americana non è coerente con la prospettiva di una Europa della sovranità condivisa che viene creata un po’ alla volta attorno all’euro: così come l’esercito europeo metterebbe sicuramente in secondo piano la Nato come strumento di coordinamento della alleanza transatlantica, la rappresentanza come Unione Economica e Monetaria darebbe all’Europa una voce unitaria in tutti i consessi internazionali, ad iniziare dal Fmi. La Gran Bretagna, rimanendo nell’Unione, si sarebbe trovata di fronte ad una serie di vicoli ciechi: marginalizzata politicamente, senza la possibilità di dare vita ad un fronte dei Paesi non aderenti all’Eurozona, né di sostenere quelli mediterranei in difficoltà; assorbita come piazza finanziaria europea predominante, per via della prospettata istituzione di un Mercato Unico Europeo dei capitali e della firma del TTIP che renderà superfluo il passporting britannico per le banche americane che vogliono operare in Europa; privata di una rappresentanza internazionale autonoma; vincolata ad aderire all’Esercito europeo.

C’è chi paventa uno scenario post Jugoslavia, con lo sgretolamento statuale che partirebbe dalla stessa Gran Bretagna con l’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord, che poi magari aderirebbero singolarmente all’Unione. A seguire, in Spagna riprenderebbe vigore l’autonomismo catalano. Si provocherebbe, paradossalmente nel momento di minore credibilità delle istituzioni europee, quel processo di dissoluzione degli Stati nazionali che era stato perseguito in passato come strategia necessaria per agevolare la creazione di un livello politico sovranazionale. La verità dei numeri renderà non conveniente questo processo: chi si stacca, avrà più costi e meno aiuti. Al tavolo delle trattative per definire le nuove relazioni con l’Unione, gli scozzesi, i gallesi ed i nord irlandesi che si sono espressi a favore della permanenza della Gran Bretagna in Europa capiranno che i consistenti aiuti economici finora ricevuti dall’Unione europea erano in realtà un mero ristorno del contributo finanziario pagato dell’Inghilterra; e che, anzi, fin dai tempi di Margareth Thatcher si è ridotto al minimo l’esborso netto verso l’Unione. Apprezzeranno gli agi nazionali, come gli altoatesini.

La Brexit crea una discontinuità forte, che determina in Europa rischi economici e finanziari, incertezza politica sul piano interno e scetticismo verso l’Unione europea. Innesca, soprattutto, la convinzione che non c’è nulla di irreversibile nella costruzione dell’Unione e nelle relazioni internazionali.

Tutti i processi politici attivati negli anni dopo la crisi, dagli Usa e dall’UE, si stanno dimostrando un fallimento. Dalle primavere arabe sono cresciuti più rovi che fiori, mentre delle speranze suscitate dalla Unione Euromediterranea del 2008 non c’è più traccia. La costruzione dell’Unione Economica e Monetaria europea ha portato un intero continente al collasso, con decine di milioni di disoccupati, debiti pubblici alle stelle e sistemi bancari ancora barcollanti: l’Europa non è mai stata così povera e priva di prospettive. La Brexit non dà nessuna soluzione a questi problemi, ma almeno mette una parola fine a tante illusioni.

Come cambia la geopolitica con la Brexit

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