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Per la prima volta dagli anni ’80, quando esplose la crisi delle economie in via di sviluppo, molte fra le più grandi economie emergenti hanno visto rallentare la propria crescita per tre anni consecutivi. Questa evidenza è solo una fra le tante, contenute nel Global economic prospects pubblicato di recente dalla Banca Mondiale e dice tutto della preoccupazione che gli osservatori internazionali nutrono nei confronti degli andamenti dell’economia, le cui prospettive rimangono deboli e orientate al ribasso.

Un altro dato dice molto anche relativamente alla capacità che abbiamo di rendercene conto. La crescita globale stimata, nel 2015, è stata del 2,4%, lo 0,4% in meno di quanto si fosse previsto a giugno del 2015. Segno che le decelerazione è stata imprevista e del tutto imprevedibile.

Se dal dato globale estraiamo quello relativo agli Emergenti, la stima della crescita per il 2015 si attesta a un +4,3%, ben al di sotto del 4.9% del 2014 e lo 0,4% in meno rispetto alle previsioni di giugno. Ciò vuol dire che gran parte del rallentamento globale nasce in questi paesi e si trasferisce per “simpatia” al resto del mondo.

E d’altronde sarebbe strano il contrario, vista la quantità e la qualità delle interconnessioni esistenti fra le economie internazionali. Ciò dovrebbe spiegare perché a ogni tremito in Cina, ma anche in Russia, Brasile o Sudafrica corrisponde una tremarella globale. La perfetta nemesi del colonialismo 2.0.

Se guardiamo alla tabella che riepiloga l’andamento globale della crescita nei diversi paesi, notiamo alcune cose. La prima è che fra i paesi ad alto reddito, ossia Stati Uniti, euro Area, Giappone, Regno Unito e Russia (dal luglio 2015 inserita in questa categoria di paesi), il rallentamento più marcato nelle previsioni di gennaio 2016 rispetto a quelle di giugno 2015 si osserva in Russia, seguita dal Giappone e poi dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. L’Eurozona è quella che al momento sembra la più stabile.

Se guardiamo agli emergenti, osserviamo che il disallineamento è assai più pronunciato e che fra i paesi asiatici il più evidente è quello della Cina, le cui prospettive peggiorano di anno in anno già dal 2015 rispetto a quanto previsto.

Ciò rende un interessante esercizio di osservazione porsi la domanda su come reagisca il mondo a un rallentamento peggiore del previsto di queste economie. O, per dirla con le parole della WB chi prenda una raffreddore ogni volta che i Grandi Emergenti starnutiscono. Come dato di contorno è utile ricordare che più del 40% dei poveri del mondo vive nei paesi emergenti, che poi sono quelli dove la crescita ha rallentato di più.

Per svolgere la sua simulazione la WB ha preso come riferimento i cinque BRICS, quindi Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ossia le ex grandi speranze dell’Occidente che rappresentano una quota assai importante dell’economia globale, oltre che essere i leader delle economie emergenti. Dopodiché ha svolto alcune simulazione empiriche in virtù delle quali è arrivata alla considerazione che “un declino dell’1% nella crescita dei BRICS potrebbe ridurre la crescita nelle altre economie emergenti di circa lo 0,8% e la crescita globale di circa lo 0,4%”.

Tutto ciò mostra con chiarezza che ci sia “un sostanziale rischio di contagio” che dai BRICS si diffonde agli altri emergenti “con potenziali effetti avversi anche per le economie avanzate”, che si aggrava se sommato a quello di una crescita più lenta delle economie avanzate o di un aumento delle tensioni geopolitiche. Senza considerare che bisogna considerare come altamente incerte le proiezioni che provano a quotare le conseguenze dell’inversione del ciclo della politica monetaria americana.

Il mondo non è mai stato un posto sicuro. Oggi ancora di meno.

Il problema dei BRICS ci riguarda tutti: ecco perché

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