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Oggi  l’Italia che crede di contare (che non coincide necessariamente con quella che ha voce in capitolo) affollerà Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Alcuni leggeranno con cura le “considerazioni finali” della relazione del Governatore, molti faranno finta di leggerle ma scorreranno i giornali o riempiranno la cartelle del sudoku; la grande maggioranza farà lo “struscio” come il sabato sera a Via Pretoria a Potenza, preoccupati di far vedere che hanno ricevuto l’invito, ci sono e cercano di notare chi non c’è. Il caso vuole che numerosi “accademici” marcheranno visita a ragione di un importante convegno internazionale sul debito pubblico nell’eurozona all’Università di Roma La Sapienza. Ove qualcuno mi cercasse negli afosi corridoi di Palazzo Koch, sappia che deserto la cerimonia da alcuni anni e il 31 maggio sono, invece, a Via Castro Laurenziano a studiare proposte su come ridurre il debito pubblico. Seguirò il rito di Palazzo Koch (sempre che ne valga la pena) con il mio iPad.

Nessun Paese a economia avanzata ha riti analoghi. Tra quelli in via di sviluppo qualcosa del genere avviene ancora in Angola, dove parte importante dei proventi del petrolio affluisce automaticamente alla Banca Centrale, i cui bagni hanno rubinetti dorati. Tuttavia, in seguito alla lettera consegnata dal Fondo Monetario Internazionale al ministro dell’Economia e Finanze e al Governatore della Banca d’Italia, al termine delle consuete consultazioni annuali, mi aspetterei “considerazioni finali” differenti dal solito, con meno camomilla e una buona dose di caffeina.

Perché? La lettera del Fmi sostiene, a chiare lettere, che seguendo le politiche indicate nel Documento di Economia e Finanza (Def), e ipotizzando un buon contesto internazionale (espansione del commercio internazionale, serenità in materia di tassi di cambio), il reddito nazionale dell’Italia raggiungerà il livello del 2007 attorno al 2027. In altri tempi, la stampa avrebbe gridato allo scandalo con titoli di prima pagina, ma dopo le recenti fusioni e incorporazioni, i direttori dei quotidiani sembrano narcotizzati.

Allora, non c’è da auspicarsi che, con uno scatto d’orgoglio, la Banca d’Italia rivendichi la propria indipendenza e indichi la necessità di politiche di crescita per evitare un ventennio perduto in cui il Paese sarebbe, dopo la Grecia, l’ultimo in classifica nell’Unione europea. Sempre che, dopo le ultime scosse ad Atene, non venga superato dalla stessa Repubblica Ellenica.

Ciò richiede, innanzitutto, un’azione decisa da parte dell’imposizione tributaria: il 3 giugno è il tax freedom day, il giorno in cui gli italiani smettono di lavorare per il leviathan del fisco e cominciano a lavorare e produrre per loro e per la loro famiglia. Tale tax freedom day dovrebbe essere anticipato almeno di due settimane, se possibile di un mese, per essere in linea con le economie industriali che corrono piuttosto che tra gli ultimi di quelle che arrancano. Si dovrebbe, ovviamente, cominciare dalla riduzione del cuneo fiscale.

Ciò comporta, naturalmente, una drastica e permanente revisione della spesa per eliminare quella cattiva (sprechi, ridondanze, corruzione) ed esaltare quella di alta utilità sociale. Ci sono leggi che lo prescrivono: basta applicarle. Per facilitare il compito, il Centro Studi Impresa Lavoro ha redatto una guida operativa (La Buona Spesa: dalle opere pubbliche alla spending review) in lessico a tutti accessibile. Gli strumenti quindi non mancano.

Ci sono anche lavori settoriali come Manifattura Italia (prodotto dal ministero dello Sviluppo Economico) con indicazioni per aumentare le produttività nel manifatturiero (la vera architrave economica dell’Italia), nonché analisi su come giungere a un migliore funzionamento del mercato del lavoro, dopo le delusioni del Jobs Act.

Il materiale non manca per indicare una strada di crescita. Speriamo che la Banca d’Italia lo abbia metabolizzato e faccia proposte concrete. Altrimenti, lo struscio rischierebbe di essere un tranquillante.

ivass

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