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Martedì 3 maggio la Link Campus University di Roma ha ospitato un convegno per discutere di Libia. Sono intervenuti, tra gli altri, il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e intelligence, e Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata.

Ecco cosa hanno detto i due esperti a proposito della crisi libica, del paventato intervento italiano e della presenza dello Stato islamico.

L’ANALISI DI JEAN

Secondo il generale Carlo Jean la questione è per gli italiani – legati al Paese per vicinanza geografica e trascorsi storici più o meno felici – doppiamente complicata, per via delle “dichiarazioni spesso improvvisate dei vari esponenti politici che non trattano (adeguatamente) cosa si voglia effettivamente fare in Libia”. Per Jean, infatti, mentre sarebbe prioritario definire “gli obiettivi di forza, in funzione di cosa si vuole raggiungere e di chi sono i nemici – specialmente i nostri – in Libia”, la nostra classe politica ha per lo più “rilasciato dichiarazioni ispirate a una visione legalistica della questione”, quando in realtà sarebbe più opportuno stabilire “la portata degli interessi nazionali da perseguire, quello che ci aspettiamo dalla Libia, chi sono i nostri nemici e cosa ci aspettiamo facciano i nostri alleati”.

Sebbene l’Italia abbia abbracciato l’idea di un governo di unità nazionale, il Generale – secondo cui oggi un’unità nazionale nemmeno esiste nel Paese – ha affermato che la posizione sia “irreale al momento”. “La cosa migliore da fare, da un punto di vista politico, è stare zitti”. La soluzione, tra l’altro, ricorda vagamente quanto suggerito anche da Brian Katulis – Senior Fellow del Center for American Progress – che, nella conversazione con Formiche.net, a proposito di come risolvere la crisi in Libia, suggeriva di “lasciar scegliere il popolo libico”. “Il fatto che non esista un sistema di comunicazione centralizzato presso la Presidenza del Consiglio, fa sì che tutti i nostri ministri sparino le loro personali opinioni, tanto per tenere occupati i giornali, il che mina la credibilità italiana”, ha criticato l’esperto di geopolitica e intelligence.

Non solo l’Italia, ma anche l’Europa e le Organizzazioni Internazionali stanno peccando, secondo il generale, di inerzia o egoismo, a seconda dei casi. “Parliamo di Europa e Nato, ma in realtà queste Organizzazioni stanno dimostrando la loro mancata coesione interna […] Un’Europa, poi, in Libia nemmeno c’è. Mentre la Francia e la Gran Bretagna stanno curando i propri interessi, gli Stati Uniti sono molto incerti su cosa fare”. Senza contare che, peraltro, “gli Stati Uniti hanno priorità diverse da noi italiani in Libia, prima tra tutte combattere l’Isis”

A proposito di Isis, il Generale Jean reputa che la portata dello Stato islamico in Libia sia da ridimensionarsi rispetto a quanto si crede. “Le forze del califfato sono indebolite dal fatto che il contrabbando del petrolio nel Paese è limitato, poiché il Mediterraneo è dominato dalle marine occidentali. In secondo luogo, poi, i libici, soprattutto quelli del Fezzan, sono xenofobi”. In Libia, tra l’altro, “l’Isis fa fatica ad attecchire tra la popolazione, perché deve farsi spazio in un territorio già occupato dalle milizie-tribù”, ha proseguito. E allora – si domanda retoricamente il generale – “perché non lo si riesce a sconfiggere?”. “Perché i governi di Tobruk e Tripoli hanno paura di indebolirsi troppo nella distruzione dell’Isis […], che tutto sommato fa paura a tutti quanti”.

Sulla possibilità di supportare la nascita di una forma di governo federale in Libia – che poi sfocerebbe in secessionismo, ha commentato il generale – questi ricorda il tentativo già attuato dalla Gran Bretagna nel 1950, “fallito per via della difficoltà di dividere la torta tra le varie componenti che rivendicavano la volontà di accaparrarsi una fetta sempre più grande della stessa”. A oggi, la difficoltà di instaurare un federalismo, ha proseguito Jean, è molto aumentata “perché in Libia si combatte non solo una guerra civile tra fazioni, una guerra cioè per il potere e la ricchezza, ma esistono anche degli attori esterni per cui nel Paese si svolge una competizione per il dominio, il prestigio e l’influenza nel mondo sunnita”.

L’ANALISI DI MERCURI

La frammentazione della Libia e il quarantennio gheddafiano. Su questi due elementi si è concentrata nel suo intervento Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata: “Oggi – ha detto – non si parla quasi più di Libia, ma piuttosto di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Questa, in realtà, è una divisione storica e le fratture sono talmente tanto radicate in Libia da impedire qualsiasi interpretazione che trascenda questa considerazione”. Per questo motivo “oggi è difficile ragionare in maniera unitaria”.

Alle divisioni interne si ricollega il secondo elemento rintracciato da Mercuri, la quale ha affermato che “quando Gheddafi prese il potere, nel 1969, ricevette da Re Idris una Libia molto frammentata e molto debole”. Dopo aver analizzato i tratti caratteristici della jamahiriya libica – una sorta di governo delle masse – Mercuri ha elencato gli elementi per cui il Paese ha vissuto una Primavera Araba personalissima, diversa da quella egiziana e tunisina. Innanzitutto gli attori. Mentre nei paesi limitrofi a insorgere erano i giovani, in Libia protagonisti delle proteste sono state le tribù, “soprattutto quelle della Cirenaica, che ricevevano poco nella ridistribuzione dei proventi petroliferi”. Poi, il contesto: “In Libia è sempre mancata ogni forma di coscienza nazionale e istituzionale, che ha permesso alle milizie e alle tribù di rafforzarsi”, ha commentato la professoressa. A questo si è sommato “l’errore della coalizione anglo-francese di armare un Consiglio nazionale di transizione che aveva il compito di coordinare tutte le forze dei ribelli, ma che la coalizione non conosceva fino in fondo”. Infine, la natura del conflitto. “Con la morte di Gheddafi, la coalizione si è ritirata e la gestione della situazione è stata lasciata a questo Consiglio che non sapeva cosa fare e come disarmare le milizie”.

Ora Fayez al-Sarraj – capo del governo di unità nazionale ufficialmente riconosciuto dalle Nazioni Unite si è insediato in un contesto nazionale frammentato e “quantomeno è riuscito a convogliare intorno a sé alcuni importanti attori del territorio, come le guardie petrolifere, la Banca Centrale e la NOC, compagnia petrolifera libica”, ha concluso Mercuri.

CARLO JEAN, Isis, iran

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