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La rimozione del divieto dell’esportazione di petrolio da parte del Congresso Usa è una mossa storica per l’industria americana. Si pone fine ad uno dei capisaldi della strategia energetica di Washington: un blocco introdotto nel 1973 in piena crisi petrolifera per rilanciare le compagnie nazionali, ma che non ha fatto altro che aumentare l’interdipendenza societaria e geopolitica con il blocco del sistema petrolifero saudita. Ora che lo scenario è completamente cambiato, ora che l’industria energetica degli Stati Uniti è completamente rimodellata su logiche di produzione ribaltate – la rivoluzione dello shale e delle sue piccole compagnie tascabili, lungi dall’essere al capolinea ha portato le riserve strategiche Usa a livelli mai raggiunti prima – il Paese può aspirare a diventare un esportatore di rilievo, soprattutto sul mercato asiatico (la Cina pare già in allarme difatti).

Per l’Europa il discorso potrebbe essere più complicato e dipendente dalla variabile legata ai negoziati sul Ttip e alla configurazione dell’attuale sistema della raffinazione nel vecchio continente. Per intanto, i repubblicani, principali fautori dell’eliminazione del blocco ottenuto come merce di scambio in cambio dell’appoggio alle politiche ambientaliste del presidente Obama, esultano. L’intesa raggiunta dovrà essere votata da Camera e Senato, a maggioranza repubblicana, e poi firmata da Obama. L’accordo, oltre alla rimozione del divieto, prevede anche nuovi incentivi per le energie pulite, soprattutto solare ed eolico, su impulso democratico; sarà inoltre rifinanziato, per tre anni, il fondo del Congresso per la difesa dell’ambiente ed è stata esclusa l’assunzione di misure che possano bloccare le iniziative in difesa dell’ambiente dell’amministrazione Obama, come riferisce il Wall Street Journal.

Se, dunque, le grandi compagnie energetiche come la Chevron si preparano a tagliare sensibilmente i budget collegati all’esplorazione e alla produzione di petrolio convenzionale (gli analisti parlano di un – 24 per cento per il 2016), i produttori di tight oil (petrolio non convenzionale) potranno ora allargare lo spettro del proprio mercato stuzzicando l’interesse del sistema finanziario, dei fondi venture e degli investitori stranieri, perché se è vero che ormai i cosiddetti produttori zombie – come vengono chiamate le tante piccole e medie compagnie di estrazione americane – hanno imparato a produrre anche con un prezzo del greggio così basso, e altrettanto vero che la vera scommessa, ormai, diventa quella di rafforzare un’industria che non deve più solo alimentare l’industria nazionale, ma deve essere capace di competere con gli altri player globali, Opec e Russia in primis. Come sostengono alcuni analisti di Sberbank, per la Russia la fine del blocco all’export potrebbe essere un altra grana per il Cremlino, capace di mettere a rischio i progetti di ‘egemonia’ energetica che Rosneft e Gazprom hanno ingaggiato con i sauditi e i paesi del Golfo.

Il tema dei prezzi, a sentire l’Agenzia internazionale per l’energia, però potrebbe essere prima o poi un tema esiziale per i produttori americani. Come ha spiegato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia durante la presentazione del World Energy Outlook a Roma, “se i prezzi restano a questi livelli nei prossimi 4-5 anni, la produzione di shale oil statunitense ne soffrirà e potrebbe ridursi a 3 milioni di barili al giorno. Già dal prossimo anno, si assisterà a una riduzione giornaliera di mezzo milione di barili negli Usa”. Staremo a vedere.

Come zampillerà l'export di petrolio Usa

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