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Le dichiarazioni dei giorni scorsi dell’Amministratore delegato dell’Eni Descalzi pronunciate sia all’investor day a Piazza affari e poi alla riunione congiunta delle Commissioni industria di Camera e Senato – e riguardanti la correttezza degli interventi della società in materia di tutela dell’ambiente e della salute nel bacino petrolifero della Val d’Agri – nella loro chiarezza sono state di una durezza inusuale per il top manager di una grande società a controllo pubblico ma quotata.

Dicendosi infatti “indignato” per le accuse che in questi giorni hanno investito l’Eni dopo l’inchiesta avviata dalla Procura di Potenza per un presunto smaltimento illecito di rifiuti legato all’attività estrattiva, Descalzi si è detto arrabbiato contro “chi dice senza sapere quello che facciamo e che siamo degli avvelenatori.” E subito dopo ha aggiunto “È la cosa che mi fa indignare di più, perché non avveleniamo nessuno, mentre lo fa chi racconta cose senza capire e approfondire, avvelenando il sistema industriale sociale”. E a voler dimostrare la limpidezza dei comportamenti della holding petrolifera, Descalzi ha ribadito “rispetto e collaborazione” con la Magistratura locale che, peraltro, molto opportunamente ha precisato di non aver formalizzato un’indagine per disastro ambientale.

Potremmo anche sbagliarci, ma ci sembra di capire che le parole, ma soprattutto i toni usati dal manager dell’Eni, riflettano un livello di esasperazione suo e di tutti i dirigenti operativi della società che sono ormai stanchi di trovarsi di fronte da lungo tempo a vere e proprie campagne di disinformazione su certa stampa e in tv di chi addebita ad essa ripetute trasgressioni alle norme vigenti e disinteresse per le problematiche della salute e dell’ambente. Se reati fossero stati commessi li si accerterà nelle sedi competenti e chi avesse trasgredito le leggi ne risponderà in sede penale. Ma Descazlzi ha ricordato con forza i massicci investimenti realizzati dall’Eni per valorizzare una risorsa strategica per il Paese come il petrolio lucano e tutte le misure adottate per farlo in piena sicurezza per la salute dei cittadini e la tutela dell’ecosistema.

Ma alle dichiarazioni appena commentate, Descalzi ne ha aggiunte altre che preoccupano molto gli addetti della raffineria di Taranto – che lavora anche il greggio della Val d’Agri – e che il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti estrattivi e di prima lavorazione di Viggiano rischia di ‘uccidere’. “I margini di raffinazione” – ha rilevato in proposito l’Ad delegato – “erano già al limite, ma ora la situazione si complica ancora di più perché bisogna andare a prendere il petrolio altrove, con un aggravio dei costi che, secondo una prima stima, si aggirano sui 4-5 dollari al barile. Ma finché tutto non è chiaro Taranto va in secondo piano. Voglio andare fino in fondo e capire quello che è successo”.

Ancora una volta si evidenzia l’importanza strategica per l’Eni della raffineria ionica che – pur essendo di capacità limitate non superando i 5,6 milioni di tonnellate lavorabili all’anno, dando occupazione a 450 addetti diretti e a circa 500 nell’indotto di imprese di manutenzione impiantistica, di trasporto e di altri servizi – proprio grazie al petrolio della Val d’Agri è mantenuta in esercizio nonostante abbia ancora una centrale elettrica che la società vorrebbe convertire a metano, ma che al momento – se le nostre informazioni sono corrette – brucia ancora olio combustibile, non essendosi completato l’iter autorizzativo per il cambio di combustibile.

Allora a questo punto è lecito chiedersi: ma è forse in corso un nuovo attacco di settori dell’ecologismo più estremistico contro un segmento dell’apparato produttivo dell’Italia meridionale, così come da anni si sta portando innanzi un attacco in ogni sede cittadina, locale, nazionale ed europea contro l’Ilva ? C’è chi vorrebbe avviare lo scardinamento della spina dorsale dell’industria delle aree meridionali apulo-lucane, ove si pensi anche agli attacchi mossi da anni contro la centrale dell’Enel di Brindisi a Cerano ?

Allora sarà bene ricordare che tra i campi petroliferi della Val d’Agri, la raffineria di Taranto, l’Ilva e la Centrale dell’Enel, sono impiegate – fra addetti diretti e nelle loro attività indotte – poco più di ventimila persone, che due grandi porti come quelli di Taranto e Brindisi registrano movimentazioni prevalenti legate ai combustibili e ai minerali destinati a produrre acciaio, energia e benzina e che questi beni e utilities sono assolutamente strategici per il nostro Paese.

Si vorrebbe allora scardinare questo apparato di produzione industriale, con danni devastanti per la stessa tenuta economico-sociale dei territori interessati agli insediamenti ? E per sostituirli con cosa ? Con il turismo, l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, le Pmi e la Pubblica amministrazione? Tutte branche assolutamente utili all’economia di queste aree della Puglia e della Basilicata, ma che non generano un volume di pil neppure lontanamente paragonabile a quello dei comparti che si vorrebbero sostituire.

Se questo nostro timore è fondato, allora – insieme ai vertici dell’Eni – non dovrebbero scendere in campo i Sindacati di categoria e confederali, le Confindustrie di Puglia e Basilicata, gli Atenei di Bari, Lecce e Potenza, le banche della zona – preoccupate per un tracollo delle economie locali – le Istituzioni elettive e tutti coloro i quali credono a industrie petrolifere, siderurgiche ed energetiche resa sempre più ecosostenibili, ma pienamente in grado di proseguire le loro attività ? E la mobilitazione civile per salvare l’industria sotto attacco non dovrebbe essere più intensa e meno timida di quanto molto spesso non appaia?

Eni, tutti i timori di Descalzi su Taranto e Val d'Agri

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