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Dal 4 marzo, con l’inizio della IV stagione di House of Cards, abbiamo forse le idee più chiare su chi potrà essere la donna (ebbene sì, una donna) o l’uomo più potente del mondo. E l’accoppiata Hillary-Bill Clinton (con lui questa volta necessariamente comprimario, anche se – stante il forte carisma – protagonista suo malgrado) non può non ricordarci l’alleanza (cinica, spietata e spesso competitiva) tra Frank Underwood e la moglie Claire, coppia altrettanto ambiziosa della serie televisiva. Dove emerge una visione della politica solo (?) come volontà di potenza, potere personale e fine a se stesso, spesso autoreferenziale, che comporta perdita di senso della realtà, ovvero un approccio troppo realistico ai fatti, vale a dire non più interpretabili alla luce di una visione generale o di principi etici. Di qui le domande: dov’è finito il bene comune? Cosa è diventata la politica e qual è il suo ruolo in una società fortemente interdipendente che sembra prescindere dall’agire politico?

Vi è una difficoltà intrinseca, da sempre, nel definire che cos’è la politica. Non essendo sufficiente un solo termine, nell’ambito anglosassone addirittura la politica viene declinata attraverso le sue tre facce: politics, polity, policy, dove politics è la lotta per il potere all’interno di un sistema di regole, istituzioni e norme (polity) che viene esercitata per raggiungere determinati esiti (policy).

Dalla contrapposizione amico-nemico di schmittiana memoria al monopolio legittimo dell’uso della forza (Weber), alla distribuzione di valori imperativi nell’ambito di una comunità politica (Easton) alla sfera delle decisioni collettivizzate e sovrane (Sartori), la politica non è altro che “l’insieme di attività, svolte da uno o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzate da comando, potere e conflitto, ma anche da partecipazione, cooperazione e consenso, riguardanti una collettività nella quale sia promosso il controllo della violenza e distribuiti costi e benefici, materiali e non” (Cotta, Della Porta, Morlino, Fondamenti di Scienza Politica, Il Mulino, 2001: 29).

In buona sostanza, “la politica riguarda la gestione della collettività umana responsabile dell’ordine pacifico” (ibidem). E in democrazia è fondamentale il rapporto fra governanti e governati, attraverso una relazione duale e di reciprocità. Su questo rapporto, per dirla con Robert Dahl, si fonda sia la responsiveness (rispondenza) dove il politico viene legittimamente eletto dai cittadini e deve rispondere del suo operato, sia l’accountability (il dovere di render conto), che si applica tanto al politico quanto ai funzionari della pubblica amministrazione che devono poi implementare le politiche pubbliche settoriali.

Tuttavia, la situazione odierna è caratterizzata da società sempre più complesse e differenziate, nelle quali il processo che porta all’individuazione e alla rappresentazione delle domande dal basso si fa molto più complesso, non solo in relazione alla dimensione economica, ma soprattutto in ordine alle concezioni del bene, ai valori e alle credenze condivise. Si assiste a una crescente diversificazione dei bisogni e una frammentazione degli interessi, sempre meno orientati verso obiettivi collettivi e sempre più verso scopi individuali. Questa maggiore sensibilità individuale alle differenze produce effetti di sovraccarico di domande (processo di overload) nei processi di formazione delle politiche pubbliche. E la crescita di fenomeni come il lobbysmo (sia pur regolato) rende molto più complessa e articolata la funzione della rappresentanza degli interessi organizzati e della conseguente sfera delle decisioni.

Di qui i problemi di consenso da parte di chi è istituzionalmente deputato a prendere decisioni. Rispetto all’analisi della rappresentanza politica, notiamo infatti una crescente incapacità dei partiti di interpretare domande, preferenze, bisogni, identità di individui e gruppi sociali, nonché di indirizzare tali istanze all’interno del classico circuito decisionale parlamento-governo-pubblica amministrazione, per produrre risposte sostenute dal consenso. Con ciò, per partiti e gruppi d’interesse diviene sempre più difficile, sebbene cruciale, comprendere quali, fra la moltitudine di pretese avanzate dai cittadini, siano degne di essere considerate.

E poiché è noto che gli attori portatori di domande specifiche non sono descrivibili come entità pure, ma come l’esito di ruoli giocati su più livelli. L’immagine che ne esce non è tanto quella di un gruppo (interesse) diretto verso un bersaglio (istituzione) per l’ottenimento di uno scopo (soddisfazione delle aspettative specifiche), bensì quella di una rete di interessi interconnessi sospinti nell’arena politica.

Inoltre, contrariamente al senso comune, la produzione delle policy non è attività esclusiva dei politici e dei governanti, il che naturalmente non significa che questi siano allo stesso livello di altri attori. Un’altra convinzione comune da sfatare è che la politica pubblica sia sempre una risposta data dall’autorità politica (e che, quindi, emana da un potere legittimato e istituzionalizzato) a una domanda sociale. Ovviamente è anche questo, ma il processo di formazione e attuazione delle politiche pubbliche coinvolge diversi gruppi e associazioni di interessi che partecipano scambiando consenso e capacità di autodisciplina per ottenere potere per sé e benefici per i gruppi sociali che rappresentano.

Dov’è finita allora l’autonomia della politica? Riprendendo Max Weber ne La Politica come professione, chi vive “per” (e non “di”) la politica dovrebbe alimentare il proprio sentimento di sé e il proprio equilibrio interiore servendo una causa. Secondo l’etica della responsabilità, cioè alla capacità di rispondere delle conseguenze che si producono attraverso l’agire politico.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche

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