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Dopo l’investitura di Washington, ribadita pochi giorni fa dall’ambasciatore Usa in Italia John Phillips, Roma ha le carte in regola per recitare un ruolo di guida nella gestione della crisi nell’ex Regno di Muammar Gheddafi. Dovrà però tenere a bada le pulsioni interventiste di Parigi, Londra e di altre potenze regionali, ansiose di guadagnare posizioni a scapito del nostro Paese, e dimostrare di essere un partner più affidabile su alcuni dossier su cui si è dimostrata troppo titubante – Muos e sanzioni alla Russia su tutti.

A crederlo è lo storico ed economista Giulio Sapelli, autore del pamphlet “Dove va il mondo” (edizione Guerini), che in una conversazione con Formiche.net spiega cosa si muove in queste ore nel calderone libico.

Professor Sapelli, cresce la possibilità che l’Italia intensifichi le sue operazioni di intelligence in Libia. Si parla dell’invio di unità speciali, sotto il controllo dell’Aise, a sostegno dei nostri 007 nel Paese nordafricano, in virtù di una nuova linea di comando decisa con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri adottato il 10 febbraio. Che cosa significa?

Spero che – vista anche l’accelerazione che può aver dato la morte di due dei nostri tecnici della Bonatti rapiti tempo addietro – non sia il preludio a un’operazione militare, che al momento avrebbe molti punti interrogativi e quasi nessuna certezza. Il governo italiano mi pare che stia sposando questa linea, rilanciata in queste ore dopo alcune indiscrezioni stampa, e secondo me non sbaglia a farlo.

Non è giusto intervenire militarmente?

La nostra intelligence e i nostri militari, eccellenze sempre troppo poco ascoltate a mio parere, sconsigliano di farlo in queste condizioni. Il nostro esecutivo finora ha tenuto una linea prudente che mira a un intervento solo dopo l’insediamento di un governo riconosciuto, anche perché senza questa condizione l’Onu non lo avallerebbe. Facciamo bene a raccogliere quante più informazioni possibili, come del resto stanno facendo altri Paesi. Ma al momento non ci sono le condizioni per intervenire militarmente, anche perché non esistono una missione, obiettivi e nemici chiari.

Il sedicente Stato Islamico non lo è?

Certo, ma per sua natura è un nemico sfuggente, incontrollabile. Contrastarlo senza avere il pieno appoggio locale sarebbe impossibile. E sappiamo bene che la Libia è ancora troppo divisa al suo interno e non vedrebbe di buon occhio un intervento occidentale. Bisogna essere pazienti e lavorare per un governo di unità nazionale, come abbiamo fatto finora, consapevoli che, anche tra i nostri alleati, c’è chi vorrebbe approfittare di questo caos per dividere il Paese e guadagnare posizioni nella regione.

Di chi si tratta?

In primo luogo della Francia, che ha aumentato la propria presenza in Centrafrica, mentre nel nord del Continente continua a mantenere una forte influenza, retaggio del passato coloniale. In Libia, fino a che c’era Muammar Gheddafi, era l’Italia a recitare il ruolo del mediatore. Con la sua deposizione quell’equilibrio è saltato e Parigi prova a insinuarsi in quel vuoto per rafforzare i propri interessi, soprattutto di natura energetica. Il Regno Unito prova a fare la stessa cosa, ma a differenza dei francesi utilizza una strategia più complessa, che non punta tanto sull’azione militare quanto su strumenti d’intelligence, più confacenti alla sua tradizione e all’attuale struttura delle sue Forze armate. Noi, però, dobbiamo evitare questo scenario.

Davanti all’impossibilità di giungere a un governo di unità nazionale, creare una Libia federale sarebbe una soluzione?

Sulla carta sarebbe la soluzione migliore per uscire nel più breve dei tempi dal caos, ma la situazione è talmente compromessa che sarebbe difficile attuarla. Quella libica è ormai non solo una guerra intestina, ma un conflitto combattuto per procura, in cui ogni potenza regionale ha mire ed ambizioni differenti. Conciliarle è quasi impossibile. Un motivo in più per non abbandonare l’idea italiana di una nuova Libia unita, nonostante le pressioni franco-britanniche e, in parte, anche tedesche.

Gli Stati Uniti, però, hanno investito Roma di un ruolo guida nella questione libica. L’ambasciatore Usa in Italia John Phillips lo ha ribadito il 3 marzo in un’intervista al Corriere della Sera. Questo non conta?

Conta tantissimo. Senza Washington è difficile immaginare qualsiasi tipo di intervento in Nord Africa, così come altrove. La Casa Bianca vuole puntare su di noi, lo ha detto in tanti modi, anche tentando di venirci incontro e non metterci troppo in difficoltà sul piano politico. Ci chiede l’uso della base di Sigonella e un numero di uomini sul terreno dopo la formazione di un governo libico – si parla di 5mila circa -, ma ci solleva da bombardamenti con caccia, che ci porrebbero in situazioni complicate, visti anche i trascorsi con la Libia. Oscilla però sempre più tra noi e la Francia. Meno verso Londra, con cui vivono il punto più basso delle loro relazioni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Perché lo fa?

Washington preferisce il nostro modo di operare, un mix di soft power e azione militare di altissimo livello, come sperimentato ad esempio in Libano; un po’ perché non si fida dell’avventurismo francese, che nel 2011 – e non solo – è stato alla base di tanti problemi che scontiamo ancora oggi. Temo però che allo stesso tempo, pur in un quadro di amicizia e solide relazioni, gli Usa si aspettino da noi una reazione, perché iniziano a perdere fiducia nel nostro Paese.

Cosa glielo fa pensare?

Phillips ha detto anche che è prioritario risolvere alcune questioni che hanno atteso troppo, come l’entrata in funzione del sistema satellitare Muos in Sicilia a servizio della Nato – quindi anche dell’Italia – e che c’è necessità di tenere la barra dritta sulle sanzioni alla Russia, dove spesso il nostro Paese ha dimostrato di avere posizioni oscillanti e non convergenti a quelle alleate. In questi, come in altri dossier, Roma deve dimostrare di essere un partner affidabile. Ha le carte in regola per farlo.

Bcc

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