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Il premier belga Charles Michel, a seguito degli attentati di Parigi, ha proposto la creazione di una “Cia europea”. L’idea di un’unica intelligence ha trovato sostegno, tra gli altri, anche nel sottosegretario con delega agli Affari europei Sandro Gozi, ma si scontra con numerosi ostacoli giuridici.

A livello europeo esiste già una pletora di organi con alcune competenze in materia. A dicembre, Parlamento e Consiglio europeo hanno annunciato più poteri antiterrorismo per l’agenzia Europol, che ha un budget annuale di 94 milioni e quasi mille dipendenti. C’è poi il Centro Ue di Analisi dell’Intelligence (Intcen), settanta persone guidate dall’ex direttore dei Servizi tedeschi, che risponde a Federica Mogherini e al suo Servizio di azione esterna. Così come il Direttorato per l’intelligence militare dello Stato maggiore Ue (duecento dipendenti). Infine c’è il Coordinatore antiterrorismo dell’Ue, dal 2007 il belga Gilles de Kerchove, che di recente ha partecipato alla conferenza Med2015, organizzata a Roma da Ispi e Farnesina.

Tuttavia, queste strutture non hanno i poteri delle tradizionali agenzie di intelligence, per la semplice ragione che non rispondono ad un preciso interesse nazionale. I servizi segreti sono incardinati nei rispettivi sistemi costituzionali, sottoposti al controllo dei parlamenti e dell’autorità delegata, che dirige il ciclo d’intelligence.

Gli interessi europei sono spesso divergenti, se non addirittura confliggenti. Il fabbisogno informativo cambia in ogni Paese, è difficile immaginare un’agenzia con accesso ai segreti di attori in competizione. Non è chiaro se questa “Cia europea” debba unificare i servizi nazionali o essere un doppione. Sotto la vigilanza di chi? Con quali competenze (antiterrorismo, spionaggio, controspionaggio) e quali garanzie funzionali?

Esistono già vari accordi di collaborazione tra Servizi, soprattutto in ambito Nato. Alcuni organi di stampa hanno infatti dato la notizia che l’arresto di due sospetti terroristi in Austria, il 16 dicembre, sia avvenuto grazie alla soffiata di un Servizio “amico”. Nella storia, due accordi noti furono quello del Safari Club, siglato nel ’76 dai Servizi di Francia, Arabia Saudita, Egitto, Marocco e Iran per contrastare l’influenza sovietica in Africa, e la Trident alliance, per lo scambio di informazioni tra Israele, Iran e Turchia. Entrambe le esperienze terminarono con la rivoluzione khomeinista.

Vi sono alcune prassi che confermano la tendenza dei Servizi a custodire gelosamente il proprio patrimonio informativo e a centellinare lo scambio di notizie. Il principio need to know, che concede l’accesso ai soli dati strettamente necessari, e la regola della terza parte, in base alla quale le informazioni fornite ad un Servizio amico non possano essere diffuse a terzi senza il consenso della fonte, sono due esempi.

È utile leggere in proposito il resoconto di un incontro riservato tenutosi a Roma il 9 settembre 1997, nella sede del Sismi. Tale riunione, promossa dall’Italia, vide la partecipazione degli ex direttori della Cia, dei servizi tedeschi, francesi, spagnoli e russi.

L’allora sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti espresse l’interesse dell’Italia ad un patto di collaborazione tra i Servizi, ma le reazioni dei presenti furono scettiche. Il vicedirettore della Cia John Gannon osservò: “I servizi d’intelligence sono e rimarranno, credo, orientati sulle minacce alla sicurezza nazionale. Non penso che potrò vedere nel corso della mia vita dei servizi segreti su scala internazionale o regionale”.

L’ammiraglio Pierre Lacoste aggiunse che “i servizi segreti sono al servizio delle rispettive nazioni, ciascuna con una propria identità e con una sovranità da rispettare. […] Quando si tratta di collaborazioni operative fra servizi l’unica formula secondo me è quella della task force. Concluso il programma, ognuno torna a casa sua”.

A mettere la pietra tombale su qualsiasi collaborazione permanente fu il generale Leonid Šebaršin, ultimo direttore del Kgb: “Vorrei ricordare che ogni Servizio è uno strumento nazionale. Esso obbedisce agli ordini del proprio governo e difende i propri interessi nazionali”. Insistette sul fatto che la cooperazione “è possibile solo in quei campi in cui gli interessi dei diversi Stati coincidono. Questo avviene di rado e comunque mai al cento per cento. […] Si può quindi parlare solo di cooperazione tra alcuni Servizi in alcuni campi; questo vuol dire scambi limitati di informazioni, avendo cura di proteggere le rispettive fonti. Chi non tiene conto di questi limiti è destinato a pagarlo caro”.

È dunque probabile che i Paesi membri si limiteranno a condividere più informazioni tra Servizi nazionali. L’ipotesi di un’intelligence europea è ancora circondata da scetticismo e ostacoli.

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