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Durante la guerra di Bosnia, Alija Izetbegovic, sindaco di Sarajevo, veniva presentato dai media quale personaggio moderato e schivo. Ma altre fonti, poco note, lo ritengono colpevole di doppio gioco: la Bosnia, sotto la sua guida, negli Anni Novanta avrebbe svolto per l’estremismo islamico lo stesso ruolo dell’Afghanistan negli Anni Ottanta, offrendo ai mujaheddin internazionali un campo di battaglia dove esercitarsi alla jihad. A lui, andrebbe ascritto il merito di aver importato e sviluppato il jihadismo nell’Europa balcanica.

Anche in quell’area, come ovunque, all’inizio l’Islam era stato imposto a fil di spada, ma solo pochi – parte della classe dirigente – erano veri musulmani, importati dall’Anatolia. La conversione delle etnie locali, in seguito, ebbe carattere volontario, spesso per convenienza economica o per affrancarsi dalle discriminazioni. Fu lentissima e durò secoli, senza mai raggiungere valori superiori al 40 per cento. Sotto il regime ateo di Tito questa componente restò in sordina, ma alcuni estremisti, che avevano aderito alle Waffen SS durante l’occupazione e, nel dopoguerra, all’organizzazione egiziana dei Fratelli Musulmani, continuavano a coltivare il sogno di fare della Bosnia il riferimento di tutti i musulmani d’Europa.

Tra questi, figura di rilievo era proprio Izetbegovic che, dopo alterne vicende, nel 1989 riunì i suoi amici islamisti radicali in un partito politico che denominò banalmente Partito di Azione democratica (Sda), evitando l’utilizzo di terminologia religiosa o nazionalista, vietata dalle leggi federali. Tuttavia, si scopre con la sua Dichiarazione Islamica, quando afferma che lo scopo era quello di contribuire a “creare una comunità musulmana omogenea dal Marocco all’Indonesia”. Cioè la umma, il califfato globale, che è lo stesso obiettivo oggi dichiarato dall’autoproclamato “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. Fu così che la compagine musulmana di Bosnia riuscì a mimetizzarsi, pur soffiando, di nascosto, sul fuoco dell’estremismo.

Ai tempi della dissoluzione del regime di Tito, gli Usa, seguiti dalla Nato, decidevano di cogliere il momento per distruggere l’ultimo nucleo duro comunista rimasto nell’enclave occidentale europea, il regime di Slobodan Milosevic. I musulmani e i croati di Bosnia avrebbero potuto rendersi assai utili, visto che, pur nemici tra loro, odiavano i serbi. Così, come già i mujaheddin in Afghanistan, furono supportati e finanziati. Identica cosa accadde più tardi con i musulmani kosovari di etnia albanese. Occasione unica per Izetbegovic e per i suoi amici integralisti sauditi ed emiratini, che furono prodighi di finanziamenti, di aiuti e di costruzione di nuove moschee.

Basta recarsi a Sarajevo e constatare la differenza di sviluppo tra le tre enclavi cittadine. Al primo posto vi è quella musulmana, segue la croata e alla distanza, buona ultima, quella serba, ancora la più povera. Se a metà degli Anni Novanta l’integralismo islamico stava già preoccupando gli americani, nei Balcani i militanti continuavano a essere utili per combattere Milosevic e il comunismo. Fu così che, specie in occasione dell’assedio di Sarajevo, tutti i bosniaci passarono decisamente nella categoria delle vittime e ad Alija Izetbegovic tributati tutti gli onori.

Finita la guerra, in regime di “dopo Dayton”, i bosniaci integralisti e quelli venuti in loro soccorso dall’estero non furono più oggetto di alcuna attenzione, sebbene fosse già allora noto – ma tollerato quale costume locale – che tra le montagne essi ricevessero in premio come “mogli” le vedove dei bosniaci uccisi in battaglia.

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Lettura consigliata: “Jihad nei Balcani”, di J.R. Schindler (2009, Libreria Editrice Goriziana).

Vi spiego le vere radici del jihadismo nei Balcani

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