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A un anno dal più devastante terremoto che abbia mai colpito i territori turco e siriano, costato oltre cinquantamila morti, sabato scorso sono state consegnate 7.200 abitazioni, una parte delle 318mila nuove unità abitative che Recep Tayyip Erdogan ha promesso di realizzare entro fine mese (la metà di quelle distrutte dal sisma nelle province di Adana e di Haltay). Un risultato ormai difficile da conseguire. Norme edilizie poco rispettate nel passato, l’eccessiva burocrazia ed esigue risorse disponibili rendono lunga e tormentata la strada da percorrere per avviare un ritorno alla normalità.

Per questo, dopo aver consentito di innalzare i tassi d’interesse, nel tentativo di risollevare un’economia sempre più depressa dall’inflazione, il reis ha costretto nei giorni scorsi Hafize Erkan, prima donna alla guida della banca centrale, a rassegnare le dimissioni a fronte delle insostenibili scelte di governo, deciso a non aumentare nuovamente i tassi, dopo anni di crisi economica e di alti costi della vita.

D’altro canto, Erdogan ha sempre preferito assecondare i bisogni percepiti come essenziali dal “turco medio” – su tutti, trasporti pubblici economici ma efficienti, facilità di erogazione di mutui edilizi e costi contenuti dei generi alimentari primari – allontanandone l’interesse da più gravi problemi interni e dai grandi accadimenti internazionali.

Ma è in politica estera che continua a manifestarsi tutta l’assertività di cui è capace, coniugando un inequivocabile euro-atlantismo con una più marcata autonomia, alla ricerca di un nuovo posizionamento geopolitico.

Sia chiaro, la Turchia continua ad essere prezioso alleato, membro della Nato e da sempre considerata baluardo dell’Occidente. Tuttavia, complice la presa di distanze dell’Ue da una leadership spesso giudicata autocratica, la politica estera turca appare ispirarsi a una sorta di neo-ottomanesimo imperniato sul recupero della tradizione islamica, quantunque moderata, e proteso verso una nuova visione multipolare del mondo.

Un richiamo al passato, quindi, che da tempo induce la Turchia a recuperare una concreta influenza politica sui territori già facenti parte dell’impero ottomano, a partire dal Mediterraneo dove, più che in ogni altro luogo, si manifesta l’assertività turca. Una chiave di lettura politico-confessionale per interpretare l’approccio alla causa palestinese, con la feroce condanna nei confronti del governo israeliano e l’appoggio ad Hamas, definita patriottica.

Si tratta di un sostegno non ultimo motivato dall’interesse turco per l’immenso giacimento sottomarino di gas Leviathan, al largo delle coste israeliane. Risulta quindi vitale il supporto ai palestinesi, anche in ragione della conservazione territoriale della Striscia di Gaza per la loro futura nazione.

Peraltro, non va nemmeno trascurato che la formazione jihadista è considerata di fatto l’evoluzione di tipo para-militare della fratellanza musulmana, protagonista delle Primavere arabe e motore proprio di quel neo-ottomanesimo tanto caro a Erdogan, più che mai fortemente attratto dalla prospettiva di esercitare una crescente influenza regionale. Anche a costo di mettere a repentaglio i rapporti con gli alleati occidentali.

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Ankara considera Hamas di fatto l’evoluzione paramilitare della fratellanza musulmana, motore di quel neo-ottomanesimo caro a Erdogan, oggi più che mai attratto dalla prospettiva di esercitare una crescente influenza regionale. Anche a costo di mettere a repentaglio i rapporti con gli alleati occidentali. Il punto del generale Massimiliano Del Casale, già presidente del Centro alti studi per la Difesa

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