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Che cosa ci dice l’evoluzione politico/democratica della nuova destra? Da Milei a Zemmour, ma chiaramente partendo da Giorgia Meloni, c’è la possibilità che vi sia una destra “normale” in grado di governare senza strappi e senza il codazzo polemico di chi, ogni due per tre, invoca il pericolo per la democrazia?

Al momento l’esempio italiano può essere il più utile sia in chiave Ue, quando bisognerà gestire i nuovi rapporti di forza post elezioni europee, sia in prospettiva quando bisognerà incontrarsi ai vertici internazionali e mediare su dossier comuni (e caldi) con sano pragmatismo.

I più semplicistici hanno derubricato il fenomeno delle nuove destre come direttamente proporzionale ad una contingenza in cui partiti e leaders si fanno improvvisamente “di lotta e di governo”, mostrando però di aver smarrito un pezzo della storia per strada: all’interno dei singoli percorsi, infatti, esiste anche la possibilità che nasca, cresca e diventi determinante una fase di maturazione, attraverso la quale programmi e policies si evolvono.

Ovvero il noto panta rei di Eraclito e non una negazione delle proprie posizioni di partenza, circostanza che al momento viene osteggiata dagli oppositori di queste destre. L’esempio italiano è, in questo senso, calzante.

La sinistra, sin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, ha accusato Giorgia Meloni di aver cambiato idea su tutto: ma se, ad esempio, il primo premier donna della storia italiana avesse proseguito con una misura altamente impattante per le finanze italiane, come il super bonus, cosa sarebbe accaduto al debito pubblico?

Ci sarebbe stato il rischio di un richiamo europeo sui conti pubblici e quindi di un intervento della troika? E a quel punto che cosa sarebbe stato imputabile al governo di FdI? Una gestione scriteriata delle finanze? Qualcuno avrebbe invocato un commissariamento europeo e, quindi, un governo tecnico?

Invece all’orizzonte si sta aprendo una fase nuova, e innovativa non tanto per chi la sta mettendo in campo (dal momento che è figlia di un progetto), quanto per chi la osserva dall’altro versante della staccionata politica: ovvero quella parte politica che fino ad oggi veniva epitetata come “partito populista” è invece da chiamare con il nome proprio, senza invocare un generico pericolo per la democrazia, o il rischio di una diminuzione di diritti, o la possibilità di decisioni verticistiche.

Lo dimostreranno ulteriormente altri due banchi di prova. In primis le prossime elezioni europee potrebbero essere ricordate per quelle in cui la destre continentali mostrano uno dei risultati maggiori in termini di voti. A quel punto sarà importante conciliare le varie anime e i vari gruppi con una visione, da destra, dell’Europa. Già in questi 18 mesi gli attuali vertici dell’Ue hanno potuto saggiare con propria mano come il governo italiano si sia approcciato ai dossier più delicati (ed ecco l’intreccio con il secondo punto) come l’Ucraina, la crisi del gas, i Balcani, i flussi migratori, la difesa continentale, l’Africa, l’indopacifico e il fronte sud.

Semplicemente la destra di Giorgia Meloni è stata in grado in questo anno e mezzo al governo di procedere, con costanza e credibilità, verso una fase di accreditamento internazionale senza incutere timori negli interlocutori, o senza far scattare allarmi nelle stanze europee a cui sta facendo ora seguire quella delle politiche mirate, impreziosite da una cornice assoluta come il G7.

Non chiamatelo populismo. Il futuro delle nuove destre in Italia e in Europa

La sinistra, sin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, ha accusato il premier di aver cambiato idea su tutto: ma se, ad esempio, il primo premier donna della storia italiana avesse proseguito con una misura altamente impattante per le finanze italiane, come il super bonus, cosa sarebbe accaduto al debito pubblico? Ci sarebbe stato il rischio di un richiamo europeo sui conti pubblici e quindi di un intervento della troika?

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