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Gli italiani si sono abituati a vedersi portare in casa dalla televisione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che sta compiendo in questi giorni il primo dei sette anni del mandato conferitogli dal Parlamento il 31 gennaio del 2015.

Il pubblico si è assuefatto alla figura composta del capo dello Stato; alle sue spalle ingobbite, quasi come quelle di Giulio Andreotti; alle parole un po’ smozzicate; ai toni dimessi; ai capelli bianchi sempre ben tagliati e pettinati; agli occhi celesti dietro lenti anti-riflesso; alle carezze ai ragazzi che incontra per strada o gli portano al Quirinale con gli insegnanti; al passo spedito davanti ai picchetti d’onore, appreso quando era ministro della Difesa; al viso spesso triste, come condizionato ancora da quella scena orribile del fratello Piersanti, freddato in auto a Palermo, sotto casa e su ordine della mafia, nel giorno della Befana del 1980.

 

Maurizio Crozza non lo imita più con la frequenza dei primi mesi del settennato, come se avesse avvertito lo sviluppo di una certa empatia fra il pubblico e un presidente inizialmente avvertito non dico come un intruso al Quirinale, ma come uno ormai uscito dalla politica e arrivato lì per una somma imprevista di circostanze. Una specie di coniglio tirato fuori improvvisamente dal cilindro di Renzi, diffidente verso le candidature per lui troppo marcate e temute del “sottile” Giuliano Amato e dell’irriducibilmente democristiano Pier Ferdinando Casini. Un democristiano, Casini, contrario alla rifondazione della Dc, ogni tanto reclamata da orfani e nostalgici, perché convinto di bastare ed avanzare a rappresentarla da solo, visti i numeri elettoralmente modesti dei partiti e delle sigle surrogate dello scudo crociato da lui inventate dopo lo spiaggiamento di quella che Giampaolo Pansa aveva chiamato negli anni della cosiddetta Prima Repubblica “la Balena Bianca”, senza tuttavia ferire l’orgoglio di leader ancora su piazza come Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Carlo Donat-Cattin. Quelli badavano politicamente al sodo e sapevano che la balena è pur sempre sinonimo di forza. Dava loro più fastidio sentire Indro Montanelli invitare i suoi lettori a votare la Dc turandosi il naso, pur di evitare che il Pci la sorpassasse nelle urne.

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In questo primo anno di mandato presidenziale anche Renzi, come il pubblico televisivo, ha avuto la possibilità di conoscere meglio Mattarella, scoprendolo un po’, ma forse un po’ troppo diverso da quello che immaginava scegliendolo per la successione a Giorgio Napolitano. Diverso, perché se l’è trovato spesso di traverso, anche se non lo ammetterà mai pubblicamente, grazie anche alla discrezione, pari alla fermezza, con la quale il capo dello Stato ha esercitato il suo potere di persuasione, o dissuasione.

 

Già nella prima, primissima scelta del nuovo presidente si consumò non dico un braccio di ferro ma quasi con Palazzo Chigi, dove non si aspettavano al Quirinale come segretario generale Ugo Zampetti, appena pensionato dal vertice amministrativo della Camera. Mattarella avvertì che se vi avesse rinunciato, subendo un nome gradito a Renzi, sarebbe partito col piede sbagliato. L’osservazione faceva anche rima.

Poi sono arrivati i dissensi sottovoce ma tostissimi dai tentativi del presidente del Consiglio di ricorrere più di frequente allo strumento urgente del decreto legge per tagliare i nodi, per esempio, della riforma della scuola o della Rai. Poi ancora, più di recente, i dissensi e moniti sulla disciplina delle unioni civili, specie in riferimento al problema delle adozioni da parte delle coppie omosessuali, e sulle tensioni esplose nei rapporti con la Commissione europea di Bruxelles. Che sono rimaste peraltro insolute anche dopo l’incontro conviviale a Berlino fra la cancelliera Angela Merkel e Renzi, forse caricato di troppe attese per risultare utile ad una svolta. Poi ancora il sobbalzo, o quasi, di fronte al rischio che un’inchiesta parlamentare sui crac delle banche locali, soprattutto dell’Etruria quasi targata Boschi, possa investire e compromettere la venerabile Banca d’Italia.

Stefano Folli su Repubblica ha appena attribuito alle riserve di Mattarella anche il rallentamento, se non addirittura la rinuncia del presidente del Consiglio al progetto di affidare all’amico Marco Carrai la sicurezza cibernetica. Riserve, comunque, che il presidente della Repubblica forse non ha gradito sentire esprimere pubblicamente anche dal capo della Procura di Torino, Armando Spataro, con la solita invasione di campo della magistratura.

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Le preoccupazioni maggiori di Mattarella riguardano tuttavia il referendum confermativo d’autunno sulla riforma costituzionale a causa del significato che Renzi gli ha dato: una partita decisiva per la sorte politica sua e del governo.

Viene attribuito al capo dello Stato il timore che una posta così alta possa attirare troppo gli squali e compromettere la riforma, che lui considera invece preferibile al mantenimento dell’attuale sistema del bicameralismo paritario. Ma oltre al danno della bocciatura della riforma, il capo dello Stato teme le conseguenti dimissioni di Renzi e la gestione di una crisi politica e istituzionale da capogiro. E, francamente, non ha torto.

Azioni e timori di Mattarella

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