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Un falco predatore aguzza la vista, ha inquadrato una coppia innamorata di ghiandaie, con le loro splendide penne striate nero-azzurro (l’Atalanta o l’Inter dovrebbero inserire questo bellissimo uccello nel loro stemma). Parte in picchiata per ghermire quella che non si è nascosta tra i cespugli in tempo ed è volata via, “fuggita rapida”, canterebbe Vincenzo Cardarelli di un amore passato, “là verso oriente”. È partito l’inseguimento, il falco dietro, una scheggia; la ghiandaia pochi metri avanti, in veloce fuga. Il falco sta per raggiungerla. Strepitoso montaggio alternato, voli da caccia F12, musica da Top Gun (1986). Lo spettatore in sala ha sospeso il fiato. Poi la ghiandaia vira a sua volta in picchiata verso il basso, nella boscaglia, e si infila in un intricato cespuglio. Il falco, due secondi dopo, si posa sul cespuglio, artigliando i rametti per bilanciare il suo peso. Lo spettatore lo vede da sotto, in contre-plongée: le sue zampette artigliate si muovono sui rametti del cespuglio, la sua sagoma scura, “in soggettiva” della ghiandaia, trasmette densa tensione. Il rapace sta cercando di capire dove si è nascosto il piccolo uccello, se c’è un’apertura per entrare nel fitto rifugio. Non la vede. Niente da fare. Del resto il suo corpo è troppo grande. Desiste. Vola via a sinistra dello schermo. La ghiandaia esce e, a sua volta, vola via, incolume e libera, verso destra. Ora la regia mostra le ali che si aprono e si distendono nell’aria al rallenty. Pura poesia.

Questa è una delle indimenticabili scene di “La quercia e i suoi abitanti” (2023), documentario di Laurent Charbonnier e Michel Seydoux. Anche soggettisti e sceneggiatori, insieme a Michel Fesler, Karine Winczura e Dominuique Mansion.

Le quattro stagioni intorno e dentro la vita di un bosco di querce. Foglie verdi (estate); gialle (autunno); secche mentre lasciano i rami, poiché son foglie decidue (inverno); primi germogli verdi su rami ancora seminudi (primavera). E poi tanti animali e insetti del bosco. I canti degli uccelli, i loro voli, lo stare e il camminare sui rami, la pulizia del piumaggio con il becco, il nutrimento dei piccoli che garriscono; la lotta per la sopravvivenza. Albe e tramonti turneriani. Sole, vento, pioggia, neve.

Una regia, una fotografia (Mathieu Giombini) e un millimetrico montaggio (Sylvie Lager) che avrebbero ricevuto il plauso di Karel Plicka e Franco Piavoli (Pianeta azzurro, 1982). Le querce di Charbonnier e Seydoux sono trattate con la delicatezza e il medesimo lirismo con cui Richard Attenborugh accarezzava le sequoie (nello splendido Our planet, 2019).

Una ghianda, in primissimo piano, ondeggia pacatamente, mossa da un inizio di brezza; un’altra si stacca e cade rimbalzando, rallentata, sui rami prima e sui tronchi dopo, finendo la corsa sul terreno, tra le erbe: la musica (Cyrille Aufort) accompagna la caduta a piuma, come in un balletto di Rudolf Nureyev, con un accompagno delicato di percussioni.

Ecco lo scoiattolo dalla coda folta e rossa, scattante nel saltello e saettante nello sprint: su tronchi e rami verticali o caduti al suolo, in cerca di qualche ghianda per la merenda: esso ritorna spesso, una sorta di “guida” chiamata dagli autori a intrecciare le quattro stagioni in questo autentico incontaminato paradiso terrestre.

La ghianda è il prezioso frutto di cui tutti vanno ghiotti: dai cinghiali, al topo selvatico, alla stessa ghiandaia che talvolta fatica a ingoiarla. E ancora ad animare la vita del bosco il barbagianni, il falco, la formica (che costruisce la sua casa tra le radici della quercia) per tacere di tutti gli altri volatili: cinciallegra, picchio, fringuello, usignolo, civetta, passero, ecc. Alcuni di loro, abitano nei tronchi, e passato il temporale, si affacciano dai buchi-oblò: i piccoli con il becco aperto gridano “ho fame”.

Charbonnier e Seydoux, dopo e ore e giorni di appostamenti, camere ultrasensibili al buio e zoom interstellari, ci danno il dettaglio al millimetro quadrato. Si permettono delle “soggettive” degli animali sì da ibridare il documentario con l’action-film (non solo il duello aereo di cui sopra). Si prenda la cardiopatica sequenza del serpente acquatico che avanza verticalmente sul fusto della quercia per raggiungere le uova nei nidi di alcuni uccelli. Tutto il popolo degli uccelli (passeri, cinciallegre, ghiandaie, ecc.) “gridano” per lo spavento, con i loro beccucci aperti agitando le piccole ali, sperando d’interrompere l’avanzata. Il serpente, flessuoso, per niente intimorito, sale, sale, sale. Avanza come la morte. Ora attraversa un ramo orizzontale, a mo’ di ponte, che gli permette di trasferirsi sull’altro lato della grande quercia. In quel settore la sua linguetta biforcuta, che estrae e ritrae velocemente, ha individuato le uova di uccello. Noi spettatori abbiamo cessato di respirare. Improvvisamente “trac!” Il ramo si è spezzato, era secco. Il serpentone finisce nel laghetto sottostante. Un coro di scampato pericolo attraversa la sala. Semplicemente spettacolare.

Ma quante ore di appostamento e quanto buona sorte ci sono voluti per questa scena alla Alfred Hitchcock! La quercia e i suoi abitanti è cinema di poesia. Se desideriamo educare le nuove generazioni al rispetto della natura, affinché il nostro pianeta si salvi, portiamo gli studenti a vederlo su grande schermo evitando la Tv. E, se possibile, gli si dia un Oscar

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Il coinvolgente “La quercia e i suoi abitanti” (2023) di Charbonnier e Seydoux è un perfetto documentario tra action-film e poesia. Se desideriamo educare le nuove generazioni al rispetto della natura, affinché il nostro pianeta si salvi, portiamo gli studenti a vederlo su grande schermo evitando la Tv. E, se possibile, gli si dia un Oscar. La recensione di Eusebio Ciccotti

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