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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class, pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli pubblicata sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Xi Jinping prepara la sua visita in America. A New York celebrerà all’Onu il settantesimo anniversario della vittoria della Cina o, meglio, della sconfitta del Giappone. A Washington arriverà preceduto dalle Tigri volanti. Sono un simbolo di amicizia e di cooperazione. Chiamavano così gli aviatori americani che, nella fase finale della seconda guerra mondiale, bombardavano gli occupanti giapponesi in Cina.

Ripescati oggi, sono un simbolo. Se ne sente il bisogno e questo spesso non è un buon segno: quando ce n’è bisogno, vuol dire che ci sono debolezze da coprire.

Non doveva essere questo il quadro di questa prima visita del presidente cinese negli Stati Uniti. A modificarlo hanno contribuito contrasti di fondo di natura politica e le brutte notizie che continuano ad arrivare a Wall Street da Shanghai, i due capolinea del ponte che unisce il mercato finanziario del più antico e forte paese capitalista del mondo al più nuovo e dinamico concorrente. Così, invece, l’aereo che porta Xi atterra un po’ ridimensionato, o almeno riverniciato, e l’aeroporto di Washington somiglia un po’ meno a Wall Street e alquanto di più alla Silicon Valley. Non è una sorpresa e tanto meno una novità. Semmai è la restituzione di una visita. Il mese scorso, infatti, nove sindaci di città della Silicon Valley sono arrivati tutti assieme a Chengdu a comunicare le proprie esperienze all’area della Cina che sta lavorando per diventare la Silicon Valley asiatica.

L’insistenza sul tema di questa primogenitura ravviva inoltre la memoria delle vere primizie: la spedizione di Nixon nel 1971 in una capitale cinese ancora quasi nemica, ma semiaperta dalla diplomazia del ping pong, e il viaggio della controscoperta di Deng a inaugurare una fase nuova della storia con un gesto e un apologo: con uno Stetson da cowboy cacciato in testa al posto del berretto maoista e lo slogan che per molti definì la Nuova Cina: «Non importa se il gatto è rosso o di un altro colore, basta che prenda i topi». Quel gatto, in Cina, il suo dovere lo fa da più di trent’anni. Senza le prodezze di quel felino la Cina, fatto il pieno di quella svolta, non attraverserebbe oggi la crisi più capitalistica che si possa immaginare, con la borsa di Shanghai che gioca a ping pong con Wall Street. Momentaneamente perdendo, pare, ma non irreparabilmente. La maggior parte degli esperti (o dei profeti) americani esclude, anzi, che gran parte del danno sia da accreditare all’inesperienza di chi tiene per ora in mano la racchetta.

La Cina, dicono e presumibilmente pensano, non è minacciata da un collasso economico. Il problema sarebbe dovuto a errori nella conduzione e nel controllo dei mercati da parte di una classe dirigente che non è nata con questa cultura e quindi è condannata, in un certo senso, a sbagliare e si sa che, sbagliando, si impara. Per esempio, si portano cifre: dal giugno 2014 al giugno 2015 i prezzi sono cresciuti alla borsa di Shanghai di più del 150%, rendendo così necessaria una severa correzione di mercato. Il governo è intervenuto ma con mezzi e modi sbagliati, buttandoci dentro 150 miliardi di yuan (20,8 mld euro) in un giorno nel tentativo di stabilizzare il mercato. Non ci sono ancora riusciti, anche per l’eccesso delle sue riforme alle riforme pensate e condotte dal predecessore di Xi, Jiang Zemin, anche e forse soprattutto nell’ambito della sua campagna contro la corruzione, che gli ha fatto semmai nuovi nemici all’interno del Partito comunista e ha spinto i nostalgici di quest’ultimo a contrattaccare.

Per un complesso di ragioni, comunque, il vertice non si svolgerà nella atmosfera solenne e perfino un po’ festosa che altrimenti si sarebbe potuta creare o mantenere, ma i problemi son rimasti quelli e neppure si vedono all’orizzonte nuove soluzioni. Gli Stati Uniti continuano ad avere bisogno di una Cina stabile e che abbia successo, anche se nello stesso tempo non tengono a che questo successo cambi la bilancia del potere, con le due massime potenze del nuovo secolo, la cui rivalità è destinata a durare. L’ultimo episodio verte sulla sfida supertecnologica della costruzione di supercomputer con miliardi di funzioni e, dunque, di compiti a scadenze più che decennali. Ma permangono, soprattutto, tensioni a scadenza più immediata.

La più acuta crisi riguarda il Mare della Cina meridionale, con i progetti di Pechino di creare nuove terre dell’oceano, trasformando degli scogli remoti in piattaforme, porti e possibilmente aeroporti e, comunque, basi non solo, ma anche militari. Un segno di ambizione corroborato anche da un altro gesto che gli americani non hanno gradito: la creazione di una banca asiatica di investimento, con la presenza di quasi tutte le altre potenze finanziarie a cominciare dall’Europa, e che Washington ha interpretato come un sfida, in coincidenza con fasi delicate politiche, e non finanziarie, sia negli Stati Uniti sia in Cina: in America è già in corso la campagna elettorale, in cui l’opposizione repubblicana ritiene di avere più chance puntando sulla politica estera, avanzando richieste da falchi e includendo la Cina tra i pericoli.

Basta ascoltare i discorsi di Donald Trump, attualmente il più forte nella contesa per la candidatura alla Casa Bianca, che giocano anche sulle ansie degli alleati di Washington in quella parte del mondo, vecchi come le Filippine e nuovi, ma fervidi, come il Vietnam che oggi, paradossalmente, è il miglior amico dell’America in quell’area del pianeta. I repubblicani hanno tradizionalmente pensato in termini di Asia first, anche se oggi sembrano concentrarsi sul Medio Oriente. Sull’Estremo Oriente e sul Pacifico si concentra da sempre anche Obama, ma a lunga scadenza e più ampie vedute, convinto com’è che in quella direzione cammini il futuro del mondo.

Ma c’è, dunque, molto da discutere fra la Casa Bianca e l’ospite cinese. Sugli armamenti e sui mercati, sui segreti della Silicon Valley e la corsa elettronica. Richiamando in servizio perfino le Tigri volanti, reduci di una fratellanza d’armi di settant’anni fa, simbolo di amicizie improbabili ma a volte obbligatorie.

Tutti i dettagli dell'incontro tra Xi Jinping e Barack Obama

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