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Buon anno, in particolare, a Giuseppe Fioroni, ex ministro della Pubblica Istruzione, deputato del Partito Democratico, alla guida dall’autunno del 2014 della commissione parlamentare d’inchiesta, l’ennesima, sul sequestro e sulla morte di Aldo Moro, avvenuti dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, quasi 38 anni fa. Era alla guida del governo Giulio Andreotti con un “monocolore” democristiano appoggiato esternamente dal Partito Comunista Italiano. Il cui passaggio dall’astensione al voto di fiducia era stato appena concordato per ragioni di emergenza e cosiddetta “solidarietà nazionale” fra lo stesso Moro, presidente e regolo della Dc, e il segretario delle Botteghe Oscure Enrico Berlinguer.

Questa commissione – l’ennesima, ripeto, nata anche per questo fra lo scetticismo dei più – dovrà concludere entro questo 2016, salvo proroghe, i suoi lavori inquirenti. Che sono stati e sono tuttora condotti, secondo la prescrizione dell’articolo 82 della Costituzione, “con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”. Limitazioni, tuttavia, che non sono proprio le stesse, ma maggiori, non potendo la commissione disporre, per esempio, intercettazioni o arresti, ma solo l’accompagnamento coattivo dei testimoni eventualmente indisponibili ad essere interrogati.

Interventi sulla segretezza delle comunicazioni e sulla libertà personale potrebbero essere disposte solo dalla magistratura ordinaria per procedimenti giudiziari da essa aperti recependo indicazioni o sollecitazioni della commissione parlamentare. Ma in tal caso si potrebbero creare nuovi e più delicati problemi di rapporti fra inquirenti diversi.

In attesa della fine dei lavori e della relazione conclusiva, il presidente Fioroni ha già prodotto con voto unanime della commissione, e per disposizione della stessa legge istitutiva, un rapporto parziale di circa 200 pagine sulle indagini già eseguite. Un rapporto pubblicato il 10 dicembre scorso alla Camera nel bollettino delle giunte e delle commissioni, da cui si evincono già elementi sufficienti a fare ammettere anche ai più scettici che una ulteriore inchiesta parlamentare occorresse e occorra davvero, visti i vuoti lasciati dalle precedenti, e anche dai vari processi e verdetti giudiziari che si sono susseguiti sulla tragica vicenda Moro, che “presenta profili di straordinario rilievo nella storia della nostra Repubblica”, come ha scritto Fioroni.

Responsabili dei vuoti, o della nebbia che da 38 anni pesa sul sequestro e sull’assassinio di Moro sono pure i brigatisti catturati, condannati ed anche usciti dal carcere per avere scontato la pena, autori persino di libri, memoriali e interviste sulle loro gesta, ma irriducibilmente reticenti.

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Fra i documenti di “notevole interesse” acquisiti dalla commissione, grazie anche alla declassificazione disposta l’anno scorso dal presidente del Consiglio Matteo Renzi negli archivi dello Stato, ve n’è uno originale dei servizi segreti italiani – Ufficio R, reparto D, 1626 – proveniente da Beirut e datato 18 febbraio 1978, quasi un mese prima del sequestro Moro. Si giravano a Roma informazioni palestinesi “riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbero coinvolgere nostro Paese, se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste”.

La nota, proveniente in particolare da “fonte 2000”, assicurava la disponibilità dei palestinesi di Habbash a prodigarsi, nell’occorrenza, per proteggere gli interessi italiani, secondo una consuetudine concordata a suo tempo e nota come “lodo Moro”. E si chiudeva con la raccomandazione di non diramare la notizia “ai servizi collegati Olp Roma”, di cui evidentemente le fonti palestinesi di Beirut non si fidavano.

Moro, cui certo non mancavano per la sua lunga e autorevole esperienza di governo, da presidente del Consiglio a ministro degli Esteri, collegamenti con i servizi, aveva probabilmente saputo qualcosa di quel che da Beirut si era comunicato se, una volta sequestrato, in una delle prime lettere inviate dal covo in cui lo avevano rinchiuso le brigate rosse raccomandò che fossero attivati i contatti del governo con il colonnello Stefano Giovannone, operativo per i servizi segreti in Medio Oriente.

Moro aveva evidentemente più di qualche sospetto sui collegamenti internazionali delle brigate rosse, sbrigativamente eliminate da molti studiosi come un fenomeno solo o prevalentemente endogeno, cioè nazionale. Egli riteneva che qualcuno o qualcosa potesse incidere sui suoi rapitori dall’estero.

Sarà stata poi una curiosa coincidenza, ma fu proprio dopo quell’allarme inviato da Beirut il 12 febbraio 1978 che il capo della scorta di Moro, il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, apparve particolarmente nervoso, anche a me che ebbi modo di incontrarlo incidentalmente qualche giorno prima del sequestro. Ma si pose anche al vertice della Polizia il problema di una maggiore protezione del presidente della Dc, nel cui ufficio romano di via Savoia il capo della Polizia mandò il 15 marzo, cioè due giorni prima del sequestro, il dirigente dell’ufficio politico della Questura di Roma, Domenico Spinella, per “concordare – riferisce la documentata relazione di Fioroni – l’istituzione di un servizio di vigilanza a tutela” dello stesso ufficio nei giorni e nelle ore in cui non fossero presenti, con Moro, gli agenti della scorta. Un servizio di vigilanza “la cui attivazione era stata poi pianificata con decorrenza 17 marzo”, quando purtroppo Moro sarebbe stato già sequestrato e la scorta sterminata in via Fani, a poche centinaia di metri di distanza dalla casa di via di Forte Trionfale, mentre il presidente della Dc cercava di raggiungere la Camera. Dove Andreotti si accingeva a presentare la riedizione del suo “monocolore” democristiano per ottenere la fiducia dai comunisti.

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