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Secondo l’ultimo report di Associated Press, il numero dei pellegrini musulmani morti durante l’incidente dello scorso mese alla Mecca è di 1453. L’inchiesta fatta da AP attraverso le dichiarazioni raccolte nei 19 Paesi che hanno avuto cittadini vittime dell’incidente, dimostra che i deceduti sono il doppio rispetto a quanto dichiarato dall’Arabia Saudita (769 è il dato ufficiale fornito da Riad). I pellegrini sono stati schiacciati dalla calca durante la cerimonia che ricorda la lapidazione di Satana da parte del profeta Abramo ─ avviene nel primo giorno di Eid al Adha, una delle festività più sacre del calendario islamico, e ogni anno richiama nella città santa milioni di pellegrini in più da ogni parte del mondo, perché è un precetto coranico recarsi almeno una volta nella vita alla Mecca e molti sfruttano la festività per farlo.  Episodi mortali simili sono stati abbastanza frequenti negli anni (l’ultimo nel 2006 procurò 360 morti), ma i dati ricavati da AP rendono l’incidente di questo settembre il più letale della storia ─ il triste primato finora è del 1990, con 1400.

La vicenda ha scatenato un caso diplomatico con l’Iran ─ oltre quattrocento dei suoi cittadini sono morti nell’incidente ─, che ha accusato l’Arabia Saudita di non aver protetto i fedeli. Le condanne di Teheran alla leadership saudita possono anche essere viste in un’ottica strumentale, tanto è nota la rivalità tra le due potenze regionali, ma è un fatto che Riad abbia minimizzato sulla vicenda. L’impressione è che la monarchia saudita, che per titolo è anche “Custode dei luoghi sacri” ospitando sul proprio territorio i più importanti mausolei islamici, prenda questi incidenti come un danno collaterale e accettabile: una specie di sacrificio davanti alla fede, una di quelle cose che succedono senza poter evitare il flusso degli eventi e diventano potabili perché quegli stessi eventi hanno una dimensione superiore.

Due settimane prima della strage dell’Hajj (il pellegrinaggio), una gru che stava compiendo dei lavori di ammodernamento nell’area, è precipitata sui pellegrini uccidendone 111. La gru era del gruppo Bin Laden, guidato dalla famiglia di quel Bin Laden, ed è inutile dire che sequela di cospirazioni s’è portata dietro la notizia. In quell’occasione la punizione per i capi del gruppo edile fu esemplare: tolti tutti i contratti, divieto di viaggi all’estero per i responsabili dell’azienda. Un qualcosa di nuovo, perché prima a Riad si sarebbe tenuto conto della famigliarità tra i Saud e i Bin Laden e si sarebbe chiuso più di un occhio. Ma il New York Times ha spiegato che ci sono voci che qualcuno dell’entourage del Re sta cercando di trarre speculazioni personali approfittando dei lavori di riorganizzazione infrastrutturale della città santa ─ ordinati in teoria per evitare disordini nel transito, ma di fatto inadeguati ─ e dunque per questo il governo si sarebbe indurito.

Ma se da un lato l’erede al trono Mohamed bin Nayef, che è anche il capo del comitato per l’Hajj, ha ordinato una inchiesta sulla strage, dall’altro l’Arabia Saudita si presenta come un paese ancora controverso, guidato da un sistema chiuso e arcaico (anche se tecnologicamente avanguardistico), non in grado di superare il ripetersi delle proprie difficoltà, schiavo di un’applicazione iper-rigida del messaggio islamico. Stride la nomina del saudita Faisal bin Hassan Trad a presidente del gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Stride ancor più la morbidezza riservata dai leader occidentali nei confronti di un Paese in cui le condanne a morte per decapitazione dal 1985 al 2013 sono state oltre duemila: da agosto 2014 al giugno 2015, Amnesty International ne ha contate 175, una ogni due giorni.

Se la condanna non verrà ritirata, quella di Ali Mohammed al Nimr sarà una di queste: la pena gli è stata assegnata il 27 maggio di quest’anno, dopo che fu arrestato nel 2012 quando aveva ancora 17 anni, per aver partecipato ad una manifestazione anti governativa, erano i tempi delle Primavere arabe ─ al Nimr è il nipote di un noto oppositore sciita. Al ragazzo è stata negata la presenza di un proprio avvocato durante il processo, e denuncia la Human Rights Foundation che è stato torturato più volte per estorcergli una confessione. La repressione voluta dal re Salman, impone una condanna esemplare ai “ribelli”: al Nimr sarà prima decapitato e poi crocifisso; lo scrittore Tahar Ben Jelloun ha scritto su Repubblica che il corpo del ragazzo verrà successivamente «lasciato agli uccelli rapaci» al sole, sulla croce, «fino a putrefazione avvenuta». Una cosa disumana.

Di casi come quello di al Nimr ce ne sono svariati, puniti con pene “meno” forti come le frustrate, semplicemente per aver messo un “Mi piace” su qualche pagina Facebook non gradita al Regno o aver sollevato critiche verso l’élite teocratica del Paese. E pensare che le pachidermiche Nazioni Unite non solo non riescono a condannare tanto dispotismo, tanta crudeltà e tanta arroganza, ma si indirizzano verso scelte come quella della nomina dell’ambasciatore saudita al consiglio sui diritti umani, senza che i leader occidentali sollevino troppe obiezioni.

Mentre un altro ambasciatore saudita, quello di Parigi, partecipava mesi fa alla marcia “contro il radicalismo” che massacrò la redazione di Charlie Hebdo, il blogger Raif Badawi, incarcerato a Gedda per aver sollevato critiche ai regnanti, subiva la prima dose delle mille frustrate che dovrà ricevere con rate di cinquanta ogni venerdì. Scene che se fossero state riprese dai media dello Stato Islamico e postate in internet avrebbero suscitato l’indignazione globale, si ripetono con regolarità sotto il regno di Riad, tra il silenzio unanime dell’Occidente ─ silenzio simile a quello che accompagna l’operazione militare in Yemen, con cui i sauditi stanno cercando di reprimere la rivolta houthi, ma che sta producendo moltissime vittime civili: danni collaterali pure quelli.

@danemblog

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