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A Palazzo Chigi, è stato probabilmente stappato prosecco di classe, oppure vero e proprio champagne, dopo la conferenza stampa del Presidente del Consiglio (una maratona wagneriana – circa due ore e mezzo, come il primo atto de Götterdämmerung, Il Crepuscolo degli Dei) tenuta con baldanza da un Matteo Renzi che non mostrava segni di stanchezza). Come di consueto, prima di rispondere alle domande, il Presidente del Consiglio ha esposto i risultati dell’anno che sta per terminare. Sono stati molto più positivi di quanto all’inizio del 2015 anticipassero “gufi” e “Cassandre”. Di ornitologia non mi intendo, ma conosco i classici: Cassandra delineava la caduta di Troia e, in fin dei conti, aveva ragione.

Tuttavia, Matteo Renzi ha, senza dubbio, motivo di compiacersi del fatto che i punti essenziali del suo programma (riforma costituzionale, riforma elettorale, nuovi testi legislativi di base sul lavoro e sullo scuola) hanno seguito il “cronoprogramma” (orrendo termine, da espellere dai dizionari della lingua italiana) presentato quando ha formato il Governo ed ha avuto la fiducia delle Camere. Il vostro chroniqueur non può essere classificato un renziano ma occorre dare atto che la presentazione è stata puntuale ed esprimeva una meritata soddisfazione. Non è stata un sermoncino per tenere alto il morale delle truppe (peraltro, tendenzialmente molto litigiose). Renzi ha evitato di trattare alcuni temi (quali quelli del rapporto con le autorità dell’Unione Europea, EU) perché in questo campo la realtà effettuale delle cose è andata in modo differente da quanto sperato). Ma qualunque Presidente del Consiglio lo avrebbe fatto. Ha parlato di “svolta economica”, senza citare che si è soltanto superato il punto di svolta inferiore di quella che il suo stesso ministro dell’Economia e delle Finanze teme essere “una stagnazione secolare”. Tuttavia, perché turbare con note tristi, una conferenza stampa pensata al segno dell’allegria e della simpatia?

A mio avviso, però, il Presidente del Consiglio non ha neanche sfiorato un tema importante: come nel 2015 lo scenario internazionale abbia dato un contributo non secondario al superamento (da parte dell’Italia) del punto di svolta inferiore e di come questo scenario minacci di cambiare nel 2016.

Nel 2105, l’Italia che dal 2008 ha perso il 10% del Pil ed è passata dal sesto al nono posto nelle classifica dei Paesi avanzati con maggiore prodotto interno, è stata tirata fuori dal pericolo di una deflazione non tanto da misure di politica economica interna ma dal contesto internazionale. La politica economica ha tre principali strumenti: la politica monetaria in cui l’Italia ha unicamente il ruolo di partecipare in ambito Bce alle decisioni collegiali dell’eurozona, la politica di bilancio che, vincolata dagli accordi europei, è stata sostanzialmente neutra e la politica dei prezzi e dei redditi con concertazione con i corpi intermedi, bloccata dallo scontro con i sindacati e dallo svuotamento del CNEL.

Tuttavia, nell’anno che sta per terminare, l’Italia ha fruito di un contesto magico. Numerosi Paesi dell’eurozona (principalmente quelli che si bagnano sul Mediterraneo) hanno, di fatto, voltato le spalle alle politiche di austerità. L’Italia ha avuto una grande immissione di denaro nell’economia da parte della Bce: il Quantitative Easing è un po’ come stampare moneta (quali che siano le riserve di cui si dispone), anche se spesso i fondi così creati sono rimasti nella pancia di banche disperatamente in cerca di ricapitalizzazione, senza giungere alle imprese ed al lavoro. L’euro si è deprezzato in misura consistente rispetto al dollaro, favorendo un Paese esportatore come il nostro. Grazie a tassi d’interesse bassissimi, il nostro debito pubblico è parso meno minaccioso a chi viene chiamato a rifinanziarlo.

Il 2016 – Renzi non lo ha detto e forse i suoi consiglieri non glielo hanno sufficientemente sottolineato -, si apre con un aumento dei tassi Usa che non potrà non ripercuotersi sugli altri mercati e, quindi, sul nostro debito pubblico. Il quadro internazionale rischia di aggravarsi, incoraggiando la tesorizzazione invece che gli investimenti produttivi: una “doppia trappola”, quella della liquidità e quella dell’incertezza. Si aggiungono le fibrillazioni interne a ragione di una tornata di elezioni che coinvolge grandi città e del referendum confermativo della riforma costituzionale. Nel breve periodo, l’approvazione e l’attuazione della riforma istituzionale comportano una fase di apprendimento, sempre costosa e tale da rallentare la crescita.

Non entriamo nel gioco dei decimali; ossia se nel 2016 il Pil aumenterà dell’1%, dell’1,3% o dell’1,6%. Perché l’esito dipende più che dalla politica economica dal contesto internazionale ed interno in cui tale politica matura.

Ecco le nubi economiche in arrivo sull'Italia di Renzi

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