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Tra la Germania e gli Usa c’è un attrito commerciale, geopolitico e finanziario che fa da sfondo agli avvenimenti che in questi giorni riguardano le auto vendute in America dalla Volkswagen, per via delle emissioni superiori alle norme.

DOSSIER AUTO

L’US Census Bureau, nella pagina di presentazione dei recentissimi andamenti del commercio estero, inserisce con grande enfasi due warning: le importazioni di auto e relative componenti sono al livello più alto mai registrato prima dalle statistiche; il deficit nei confronti della UE non è mai stato così pesante. Se l’incrocio dei due fenomeni porta ai fabbricanti tedeschi di auto, il sospetto si fa più pesante quando si controlla la lista dei Paesi da cui proviene l’import di automobili, al cui vertice spicca il Messico: lì ci sono ben tre impianti della Volkswagen, a Puebla, Querétaro e Silao. Non c’è alcun dubbio sul fatto che il deficit commerciale con la Unione europea preoccupi l’Amministrazione americana e che l’import di auto dall’estero rappresenti un problema, soprattutto sul versante occupazionale.

QUESTIONE ENERGETICA

C’è dell’altro: sin dal 12 settembre del 2014, nell’ambito delle sanzioni adottate contro la Russia per via dell’annessione della Crimea in violazione del diritto internazionale, il Dipartimento di Stato americano ha inserito la Gazprom Neft, Transneft e LuKoil, impedendo l’acquisto di titoli di debito a medio termine da queste emesse, ed ha imposto l’embargo sull’export di sistemi di perforazione in acque profonde e nel ghiaccio artico precisando che, mentre queste sanzioni non hanno come obiettivo, né interferiscono con la fornitura attuale di energia dalla Russia, o impediscono alle compagnie russe di vendere petrolio e gas a qualsiasi Paese, rendono difficile alla Russia lo sviluppo a lungo termine ed i progetti tecnologicamente sfidanti.

LA GUERRA DEL GAS

Come se non fosse stata abbastanza chiara la preoccupazione americana per una sempre maggiore dipendenza europea dalle forniture energetiche russe, con una mai larvata opposizione nei confronti del progetto South Stream, addirittura accompagnata dalla prospettiva a medio termine di fornire essa stessa all’Europa quote di shale gas estratto negli Usa, nei primi giorni di questo settembre la Germania ha annunciato di aver stipulato un accordo con Gazprom per raddoppiare il gasdotto North Stream. Questa infrastruttura già oggi è in grado di portare ogni anno in Germania fino a 55 miliardi di metri cubi di gas. Con il suo raddoppio, si arriva ad un flusso ampiamente in grado di sostituire il Turkish Stream, ovvero il percorso alternativo del South Stream che dovrebbe approdare in Turchia, e non più in Bulgaria, per rifornire i Balcani, la cui capacità è stata prevista in 63 miliardi di metri cubi l’anno, di cui 14 miliardi destinati al mercato turco. In questo modo, la Germania sostituisce l’Ucraina nel suo ruolo attuale di hub del gas proveniente dalla Russia: mette le mani sul rubinetto e raddoppia la dipendenza europea. La Russia, a sua volta, bypassa la prospettiva del ritorno dell’Iran sul mercato dei grandi produttori mondiali di petrolio.

LE FRIZIONI FINANZIARIE

Questi motivi di frizione si aggiungono al nocumento che la Germania ha recato alla stabilità dei mercati finanziari nel corso di tutto l’inverno, per via delle estenuanti trattative con il nuovo governo greco guidato da Tsipras, e per l’opposizione alla ristrutturazione del debito, caldeggiata dallo stesso FMI. Rimane un onere enorme per Atene ed incombe sui creditori: la Germania tiene ancora tutti sotto scacco.

LE DIATRIBE SULL’AUSTERITA’

Infine, c’è la questione più generale della politica economica tedesca. Gli Usa hanno più volte sollecitato la Germania ad adottare politiche espansive all’interno, per non perseguire solo attraverso l’export l’obiettivo del pieno impiego. Rimproverano a Berlino di contribuire alla deflazione mondiale: dapprima, la Germania ha aumentato il suo export approfittando dell’impulso determinato dal deficit federale americano e dal sostegno della Fed; ora, beneficia della svalutazione dell’euro senza pareggiare i conti con gli Usa spingendo sull’import. Anche per Berlino, il troppo stroppia.

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