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Con la rielezione di Donald Trump, la politica americana verso Taiwan potrebbe seguire una traiettoria meno prevedibile e anche in questo caso più orientata a un pragmatismo economico e transazionale. Trump ha già espresso scetticismo sul tradizionale impegno nella difesa nei confronti dell’isola, accusando Taipei di aver sottratto agli Stati Uniti il settore dei semiconduttori e suggerendo che siano i contribuenti taiwanesi a pagare per la protezione americana.

Anche per questo non sorprendono le informazioni recentemente uscite sul Financial Times, riguardo alla preparazione con cui Taiwan intende in qualche odo dimostrare il proprio impegno a difendersi, attraverso un ingente acquisto di armamenti avanzati dagli Stati Uniti, tra cui cacciatorpediniere Aegis, radar Hawkeye e aerei F-35, per un valore complessivo che potrebbe superare i 15 miliardi di dollari. Questa mossa è stata pensata per inviare un messaggio chiaro alla nuova amministrazione Trump, evidenziando che Taipei è “seria” nel voler proteggersi dalla Cina — e dunque può meritarsi la reciprocità americana.

Anche l’amministrazione Biden ha usato miliardi di dollari in vendite di armi come forma per rafforzare il sostegno attraverso intese reciproche, ma ha anche approcciato la questione taiwanese sul piano più idealista, inserendola tra i benchmark dello scontro tra modelli — Democrazie contro sistemi alternativi — che fa da guida alle dinamiche internazionali attualmente. Mentre potrebbe considerare le rivendicazioni cinesi su Taiwan in modo meno articolato rispetto ai suoi predecessori — evitando dunque di trattarle in quanto parte di quello scontro, ma limitandole a questioni interne — tale prospettiva solleva preoccupazioni tra i sostenitori di una difesa strategica di Taiwan a Washington, in particolare a Capitol Hill.

Qualsiasi segnale da parte dell’amministrazione Trump di un ammorbidimento del sostegno degli Stati Uniti a Taiwan sarà un test dell’influenza della presidenza sui repubblicani al Congresso, dove ancora un’aliquota di politici è legata a posizioni più classiche e meno trumpiane. Il presidente della Camera, Mike Johnson, e il leader della maggioranza del Senato, Chuck Schumer, hanno incluso due disegni di legge specifici su Taiwan — il Taiwan Conflict Deterrence Act e il Taiwan Non-Discrimination Act — in un pacchetto di leggi che stanno cercando di approvare rapidamente come parte del National Defense Authorization Act.

Tuttavia, il governo di Taiwan intende dimostrarsi pubblicamente ottimista sulla vittoria di Trump. “La partnership di lunga data Taiwan-USA, costruita su valori e interessi condivisi, continuerà a servire come pietra angolare per la stabilità regionale”, ha detto il presidente di Taiwan Lai Ching-te in un post su X con cui si è congratulato per la vittoria di Trump. Nei giorni successivi, Lai ha ospitato a Taipei i ragazzi del “Next Generation Security Leaders Program” del Cnas, accompagnati dall’ammiraglio John Aquilino, già capo dell’Indo-Pacific Command. Questi contatti incrociati, guidati dai think tank e accompagnati da ex alti funzionari governativi americani, soprattutto del settore sicurezza e difesa, sono uno degli elementi di legame con cui da anni Taipei ha costruito il reticolato che struttura la partnership con Washington.

“Negli scorsi mesi a Taipei la tensione al ministero degli Esteri era alta: per la prima volta dal secondo dopoguerra, l’amministrazione taiwanese non aveva alcun contatto, nemmeno informale, con un candidato alla presidenza che i sondaggi indicavano come possibile vincitore”, spiega Stefano Pelaggi, docente della Sapienza e tra i massimi esperti delle dinamiche taiwanesi in Europa. Durante il suo ultimo mandato presidenziale, Tsai Ing-wen si era decisamente sbilanciata verso i Democratici, e la de facto ambasciatrice taiwanese a Washington, Hsiao Bi-khim, si era distinta per un attivismo con l’entourage di Biden e una proiezione sugli elementi valoriali — democrazia, diritti Lgbt e libertà di stampa — dei rapporti tra Taipei e Washington. “Una scelta che aveva dato risultati nel breve termine, ma che ha anche suscitato una serie di commenti da parte di Trump sul futuro di Taiwan”.

A Taipei si è cercato disperatamente di stabilire un contatto con l’entourage del neo-eletto presidente nell’ultimo anno, commenta Pelaggi, ma Trump ha interrotto i rapporti con l’ambiente neoconservatore che, sin dai tempi di Reagan, aveva sostenuto la causa taiwanese nel Partito Repubblicano: “È lo stesso gruppo che facilitò la famosa telefonata tra Trump e Tsai”, spiega Pelaggi, secondo cui la questione taiwanese resterà comunque un elemento fondante della politica estera statunitense. Ma con tutta probabilità, l’attenzione si sposterà dagli elementi valoriali a quelli economici.

“Per la prima volta dal 1980, nel programma politico 2024 del Comitato Nazionale Repubblicano non viene menzionata Taiwan. L’isola sarà sicuramente indirizzata verso un sostanziale aumento delle spese per la difesa, verrà richiesto un significativo sforzo da parte delle aziende tech taiwanesi in termini di investimenti negli Stati Uniti, ma l’impegno bipartisan a difendere Taiwan dall’aggressione cinese non dovrebbe essere compromesso dalla presidenza Trump. Tuttavia, il delicato equilibrio semantico che regola le relazioni tra Pechino, Washington e Taipei sarà messo a dura prova dalle dichiarazioni estemporanee che il presidente eletto solitamente rilascia alla stampa globale”.

L’intervista al professor Pelaggi è tratta da “Effetto Trump nell’Indo-Pacifico”, l’ultima edizione di “Indo-Pacific Salad”

L’impegno bipartisan per la difesa di Taiwan subirà l’effetto Trump?

“L’isola sarà sicuramente indirizzata verso un sostanziale aumento delle spese per la difesa, verrà richiesto un significativo sforzo da parte delle aziende tech taiwanesi in termini di investimenti negli Stati Uniti, ma l’impegno bipartisan a difendere Taiwan dall’aggressione cinese non dovrebbe essere compromesso dalla presidenza Trump“, spiega Stefano Pelaggi, docente della Sapienza e tra i massimi esperti delle dinamiche taiwanesi in Europa

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