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Sono tempi duri per la socialdemocrazia europea, la Francia lo dimostra. Sono tempi difficili anche per Sigmar Gabriel il leader dell’Spd: i socialdemocratici tedeschi da anni sono inchiodati al 25 per cento e Gabriel stesso ieri, al Congresso dell’Spd è stato rieletto alla guida del partito con appena il 74,3 per cento dei voti. Nel 2013, dopo la sconfitta elettorale, lo aveva votato ancora l’83,6 per cento dei delegati. Al partito, o meglio a un’ala del partito, quella più di sinistra, non piace il suo appiattimento sulla linea politica di Angela Merkel (eccezion fatta per l’accoglimento dei profughi). Ciò nonostante Gabriel da sei anni è a capo di uno dei due più potenti partiti socialdemocratici europei. L’altro partito è quello italiano, il Pd guidato da Matteo Renzi. Diversamente da Gabriel, Renzi può ancora riferirsi al risultato ottenuto alle elezioni per il Parlamento europeo nel 2014: il 41 per cento dei voti. E oggi, diversamente da Gabriel ieri, si misura con il bagno di folla alla Leopolda e non con i voti di un congresso di partito.

Gabriel e Renzi sono tra gli ultimi “paladini” della socialdemocrazia europea. Questo almeno pensa l’ex direttore della Welt, Thomas Schmid, che sul suo blog si è cimentato in un interessante ritratto parallelo di questi due leader, nei quali si possono individuare tratti esteriori comuni, ma che hanno sul futuro della socialdemocrazia o, più correttamente, sulla strada da imboccare e i modi di perseguirla, una visione agli antipodi. Due pesi massimi, ma solo in relazione ai tempi che corrono ci tiene però a precisare Schmid. “Perché nessuno dei due può misurarsi con i grandi del passato: Felipe Gonzalez, Mario Soares, Bruno Kreisky, Olof Palme, François Mitterrand e anche Tony Blair”.

“Renzi prosegue il corso della ‘ri-aristocratizzazione’ della politica italiana, un corso avviato – valicando ampiamente e senza alcun riguardo le proprie competenze – dall’ex capo di Stato Giorgio Napolitano” (…) “Gabriel al confronto appare di una sconcertante solidità e serietà provinciale… Il fatto è che agisce in un contesto completamente diverso da quello italiano. La Repubblica Federale tedesca ha un che di addomesticante e calmante anche sul suo carattere irruente”.
Secondo Schmid ad accomunare i due è una certa baldanza, che nonostante l’età (soprattutto quella di Gabriel di 16 anni più grande di Renzi) si potrebbe definire adolescenziale. Un’impressione da ascrivere anche al loro aspetto esteriore: due “grandi bebè” che praticano la politica in veste casual. Schmid ricorda che Renzi, durante il suo primo discorso al Senato, parlava dal podio con le mani in tasca, mentre Gabriel si è presentato una volta in felpa e giubbotto a un dibattito di Pegida (il movimento di protesta contro l’islamizzazione, e che da più di un anno scende ogni lunedì in strada a Dresda) per ascoltare “da privato cittadino” le ragioni dei manifestanti. Schmid individua nell’agire di entrambi, “per quanto in Gabriel meno che in Renzi”, un’avversione per la politica ingessata e una certa tendenza verso l’anti politica.

Ma qui finiscono anche le similitudini, perché Renzi e Gabriel sono figli di una diversa concezione della politica. Quella italiana non disdegna l’arte “dell’illusionismo politico”, quella tedesca predilige “la lentezza, la mediazione”.
Renzi è il Davide che ha messo in ginocchio Golia, finendo per essere però, secondo Schmid – che trae spunto dal libro dello storico britannico Perry Anderson “The Italian Disaster” –, la versione giovanile di Silvio Berlusconi. Renzi agli occhi dell’ex direttore è una sorta di “saltimbanco” della politica. È consapevole, così come lo è Gabriel, che la comunicazione in politica oggi è tutto. “Solo che per Renzi la politica è fatta di comunicazione, è comunicazione: una ruota in continuo movimento”. Per cui “ha fatto della personalizzazione il cardine della sua politica”. A Gabriel questo però non è permesso, avendo “la Germania ha un’avversione istintiva (per note e buone ragioni) verso personaggi politici carismatici”. Renzi si mostra come l’uomo dell’azione e dei fatti, anche se poi “tende molto più all’illusionismo”. E a ben vedere il socialdemocratico europeo più potente del momento “non è nemmeno un vero socialdemocratico”.

Paragonato allo “Zampano” italiano, il tedesco Gabriel è costretto a una serietà soporifera. I tedeschi vogliono programmi solidi (non visioni, per quelle è meglio andare dal dottore, come usava dire l’ex cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, da poco scomparso) senza per questo farsi però necessariamente catturare “nemmeno da riforme e programmi che pure approvano”. Secondo diversi osservatori, le riforme dello stato sociale introdotte dall’ex cancelliere Gerhard Schröder nel 2005 restano ancora un trauma non del tutto superato né dal partito (che continua a vedere in esse il motivo principale per quel 25 percento) né dall’elettorato. Il fatto è, scrive Schmid che “la società tedesca nutre una profonda avversione contro qualsivoglia grande disegno politico, perché teme che questo significhi essere chiamata a nuovi compiti da assolvere”. Meglio allora la politica della Merkel, meglio una politica al rallentatore.
In primavera entrambi i partiti, Spd e Pd, dovranno cimentarsi con nuovi test. In Germania, così come in Italia, sono in programma elezioni, rispettivamente regionali e amministrative.

Tutte le convergenze (e le distanze) tra Gabriel e Renzi

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