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Concordo pienamente con Francesca Santolini quando sottolinea la necessità per il nostro Paese di un dibattito ‘laico’, fondato cioè su imprescindibili dati scientifici, sulla questione delle trivellazioni offshore, sulla quale invece si schierano e si confrontano duramente fronti contrapposti, uno dei quali peraltro, ovvero quello degli oppositori, spesso sembra lontanI da rigorose analisi scientifiche di quanto è oggetto del confronto, indulgendo al contrario a visioni apocalittiche dei temuti danni di quelle operazioni: visioni, è bene dirlo con chiarezza, che risultano ben lontane da valutazioni equilibrate dei rischi ad esse collegati.

Ma un dibattito ‘laico’ per potersi dispiegare con ampia e consapevole partecipazione dell’opinione pubblica dovrebbe partire, a mio avviso, dall’analisi dello stato dei fatti in Italia e nel Mediterraneo, da esaminarsi hic et nunc per poi desumerne giudizi, comportamenti e prospettive di lavoro di rilevante interesse pubblico. E lo stato dei fatti ci dice che in Italia già oggi si contano in mare 105 piattaforme di produzione, 8 piattaforme di supporto, 3 unità galleggianti di produzione, 48 concessione di coltivazione, 328 pozzi produttivi. Nel 2013 sono stati estratti 0,71 milioni di tonnellate di olio, ovvero circa il 13% del totale nazionale e 5,34 miliardi di metri cubi di gas e cioè all’incirca il 69% di quanto estratto in Italia. I due operatori petroliferi che operano offshore e cioè Eni ed Edison coinvolgono nelle loro attività più di cento compagnie di servizio.

Ravenna, come dovrebbe essere ormai largamente noto, sin da quando si avviarono le estrazioni di gas in Adriatico è divenuta uno dei poli più rilevanti nel Mediterraneo della navalmeccanica per l’offshore, ed anche Taranto – per chi l’avesse dimenticato – sino al 2000 ha ospitato la Belleli Off Shore che con circa duemila addetti fra occupati diretti e nell’indotto costruiva grandi piattaforme per estrazioni petrolifere che venivano poi trasferite in diverse aree del Mediterraneo per iniziarvi le campagne di coltivazione dei giacimenti, condotte dalle compagnie che avevano commissionato gli imponenti macchinari. La Belleli poi fallì a causa di criticità gestionali ed economico-finanziarie e la sua tradizione ingegneristica è andata in gran parte dispersa nel capoluogo ionico ove, tuttavia, potrebbe riavviarsi anche con l’innesto di imprenditoria esterna al territorio se partissero esplorazioni ed estrazioni previste da tempo nel Basso Adriatico e nello Ionio.

Ora, se questi sono alcuni dei dati di fatto – che evidenziano pertanto attività estrattive già largamente praticate da anni nell’Alto e medio Adriatico, nel Canale di Sicilia e sulle coste calabresi ioniche, e contro le quali non si sono manifestate per lungo tempo particolari avversioni, anche per i loro positivi effetti indotti sul piano occupazionale – è necessario chiedersi se quelle attività abbiano prodotto in passato o ai giorni nostri i danni che ora si temono per quelle da avviarsi in un prossimo futuro, con previsioni avanzate da alcuni movimenti ambientalisti e portate ai limiti del catastrofismo.

Ebbene per rispondere ad una legittima domanda in tal senso, potrebbero consultarsi fra gli altri anche gli studi condotti da autorevoli analisti – cfr. La coesistenza tra idrocarburi e territorio in Italia, a cura di Alberto Clò e Lisa Orlandi, Editrice Compositori 2014 – i quali hanno posto in luce con accurate rilevazioni empiriche su terraferma e sul mare nei territori interessati dalle estrazioni che: 1) non sussistono elementi fattuali che supportino la tesi della incompatibilità fra attività mineraria nel campo degli idrocarburi e attività agricole, della pesca e del turismo; 2) positive esperienze estere e nazionali indicano che non solo può esservi coesistenza fra attività minerarie e comparti appena menzionati, ma che sussistono opportunità sinergiche di collaborazione fra di essi, sinora non colte, che potrebbero generare benefici tangibili per gli interessi locali, quali ad esempio riduzioni di alcuni costi di produzione per agricoltura e pesca, crescita di attività collaterali sino ad oggi trascurate, irrobustimento di specifiche strutture produttive.

La riviera romagnola ha perso forse il suo irresistibile appeal turistico da quando si estrae metano al largo delle sue coste? E al largo di Brindisi, ove l’Eni ha estratto petrolio a 830 metri di profondità dal 1998 al 2006 e qualche anno più tardi, si sono forse determinati danni devastanti alla qualità delle acque marine? E nel Canale di Sicilia le attività estrattive off-shore che si svolgono da anni sono state forse sinora causa di incontrollabili nocività ambientali ? Allora sviluppiamo su questa rilevante questione nazionale un ampio e approfondito dibattito certamente ‘laico’, ma partendo dai fatti e senza fughe nell’escatologia riferendoci cioè al superamento dei combustibili fossili alla fine di questo secolo. Intanto il nostro Paese – oggi e non in un futuro remoto – ha bisogno di ridurre ulteriormente il costo della sua bolletta energetica, di difendere l’occupazione esistente nelle attività minerarie e di accrescerla con nuovi investimenti, capaci di generare sviluppo industriale aggiuntivo soprattutto nell’Italia meridionale.

(articolo pubblicato sul quotidiano l’Unità)

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