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Ambigua, talvolta esagerata eppure indispensabile. È la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, il “sultano” del Bosforo, in queste ore al centro dei pensieri e delle strategie occidentali, per la Siria e non solo.

LA STRATEGIA DI ERDOGAN

Nonostante azioni e parole spesso eccessive che caratterizzano il governo turco, l’Occidente continua a perdonare alcune intemperanze di Ankara. Perché? La prima ragione è da ricercare in uno dei dossier più caldi del momento, quello sull’immigrazione. “Il presidente Erdogan – spiega a Formiche.net il professore ed editorialista Alessandro Corneli – sta facendo un triplo salto mortale. Può darsi che gli riesca oppure no, ma sono manovre pericolose che potrebbero non reggere l’urto della loro spregiudicatezza”.

LA QUESTIONE DEI MIGRANTI

Nel vertice straordinario tra Ue e Turchia tenuto domenica scorsa, Bruxelles e Ankara hanno concordato un piano comune d’azione da 3 miliardi di euro per trattenere nel Paese i rifugiati siriani che vi transitano per raggiungere l’Europa.
“La Turchia”, commenta Corneli, esperto di geopolitica, “ha approfittato della crisi di Damasco innescata dalle primavere arabe ma complicata da Bashar al-Assad. Negli anni è diventata un serbatoio dei profughi, circa 2,2 milioni, che Erdogan utilizza come una bomba che è pronto a lanciare verso l’Europa. Un’arma di ricatto, in pratica, perché sa bene che l’Europa in recessione non è in grado di collocare questo flusso di migranti”.
Con quei soldi, Ankara si farà carico dell’accoglienza dei migranti e consentirà ai Paesi del Vecchio continente di riportare in Turchia gli “immigrati economici” irregolari che vi hanno transitato prima di arrivare nell’Ue, una volta stabilito che non hanno diritto alla protezione internazionale. Ci penseranno poi le autorità turche a rimpatriarli nei rispettivi Stati d’origine.

PERICOLO IRAN

“È stata soprattutto la Germania – rileva ancora Corneli – a spingere per una soluzione simile. Erdogan in cambio ha ottenuto un impegno a rilanciare i negoziati di adesione della Turchia all’Unione, bloccati da anni. Si tratta di una necessità. Dopo l’accordo sul nucleare che riporterà l’Iran tra le potenze internazionali, Ankara, Paese sunnita, sente di doversi riavvicinare all’Occidente per bilanciare la ricomparsa minacciosa di Teheran, sciita, suo concorrente per la leadership regionale”.

IL DILEMMA CURDO

In questo quadro si inserisce anche il problema curdo. Ieri, ha raccontato il britannico Guardian, migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Istanbul per partecipare ai funerali di Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi ammazzato sabato in un agguato nella città di Diyarbakir. Subito dopo l’omicidio c’era stata una manifestazione di piazza e la polizia aveva respinto con cannoni d’acqua gruppi di manifestanti che protestavano lanciando pietre. Mentre nel centro storico di Sur, dove è successa la sparatoria, era già stato dichiarato il coprifuoco. Le autorità di Ankara indagano, ma per il leader del partito filo curdo, Selahattin Demirtas, si è trattato un “delitto politico”. I dilemmi che deve affrontare la Turchia in merito alla questione curda, sia al suo interno sia nei Paesi confinanti non sono pochi, ha evidenziato su Formiche.net Carlo Jean, e hanno prodotto un atteggiamento ambiguo, spesso criticato in Occidente. “Ankara (che partecipa alla coalizione internazionale a guida Usa contro il Califfato, ndr) ha interesse che l’Isis, e anche gli insorti sunniti in Siria, indeboliscano i curdi, specie il loro partito dominante, l’Pyd (Unione democratica del popolo), sempre stato fortemente anti-turco”. Per l’esperto di geopolitica, alla base di questa strategia c’è il fatto che “la Turchia non accetterà mai uno Stato curdo, che comprometterebbe la sua unità. Quello che i curdi siriani e iracheni possono sperare è il riconoscimento delle loro identità di minoranza nazionale, l’uso della propria lingua, l’autonomia amministrativa e il diritto di trarre vantaggio dalle risorse naturali esistenti sui loro territori. Sarà loro possibile raggiungere accordi permanenti, però sotto lo stretto controllo di Ankara, come ipotizzato nella politica neo ottomana del presidente turco, che ha affermato la fine degli accordi Sykes-Picot e ipotizzato la costituzione di una fascia cuscinetto alle sue frontiere meridionali”.

“La Turchia si scontra con la Russia anche perché sa che al termine di questa guerra i confini regionali verranno ridisegnati. Ankara vuole stare dentro a a questa ridefinizione, stando attenta a tenere sotto controllo le istanze curde. Erdogan ha un problema interno, perché negli anni ha avocato a sé molti poteri, ridimensionando il ruolo delle Forze armate. La guerra anti curda è un modo di renderle protagoniste e garantirsi il loro appoggio”.

I RAPPORTI CON LA NATO

In queste tensioni regionali, ha spiegato a Formiche.net il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, si può iscrivere anche il caso del Sukhoi russo abbattuto la settimana scorsa da due F-16 di Ankara. La Turchia è nervosa, perché  “Mosca interviene in Siria a sostegno di Bashar al-Assad, che Ankara cerca di rovesciare. Nel farlo, inoltre, attaccando anche postazioni dell’Isis, lascia campo libero ai curdi. Anche se più in generale la vicenda è solo un altro episodio della secolare competizione regionale tra Turchia e Russia”. Per Francesco D’Arrigo, già ufficiale della Marina, oggi direttore dell’Istituto italiano di studi strategici Niccolò Machiavelli, “ci sono troppe cose strane in questo abbattimento che mi fanno credere che la Turchia, in virtù delle divisioni con la Russia su Assad, abbia solo colto l’occasione per aumentare il livello di scontro con Mosca, cercando di coinvolgere senza fortuna la Nato, come poi si è compreso dalla richiesta di convocare il Consiglio Atlantico pur in assenza di un attacco”. Nell’opinione di molti analisti, è proprio l’Alleanza atlantica è uno degli elementi per comprendere la mossa turca. Secondo un contributo del Centro Studi Internazionali (Cesi) presieduto da Andrea Margelletti, “nonostante gli avvertimenti delle Forze armate di Ankara e i frequenti sconfinamenti dei velivoli russi e siriani nello spazio aereo turco, l’atteggiamento di Erdogan e del premier Ahmet Davutoglu è apparso in contraddizione con le tradizionali procedure standard della Nato in materia di sconfinamenti aerei da parte di Paesi terzi”. Ma perché? “Sotto questo profilo”, rileva il rapporto, “appare improbabile, anche se non impossibile, una rappresaglia militare su larga scala”, dal momento che Mosca ha già intensificato la propria presenza militare nell’area. “Infatti, una simile evenienza porrebbe la Nato di fronte al dilemma dell’attivazione dell’articolo 5, possibilità che la Russia vorrebbe fortemente evitare. Al contrario, l’aggressività della strategia turca appare essere rivolta in direzione di un maggiore e forzato coinvolgimento dell’Alleanza atlantica nella crisi siriana, al fine di massimizzare i propri benefici politici e minimizzare le capacità di azione da parte di Russia e Iran, alleati di Assad”.

LEADERSHIP SUNNITA

Pure in questo caso Erdogan si muove in maniera scaltra, rimarca ancora Corneli. “Nonostante il momento di tensione massima tra la Nato e Mosca sulla crisi ucraina, la Turchia non ha abbattuto l’aereo russo con l’intento di coinvolgere l’Alleanza, quanto, piuttosto, di assumere l’egemonia nel mondo sunnita e di proporsi come il vero Califfato, quello ripulito. A torto o a ragione, Ankara crede che il sistema politico saudita abbia i mesi o gli anni contati. Per questo ha voluto lanciare un segnale, colpendo la Russia – alleato di Assad, a sua volta sostenuto dall’Iran – che sta bombardando la popolazione sunnita”. Una scelta rischiosa, anche se calcolata. Un coinvolgimento della Nato pare improbabile, almeno stando alle dichiarazioni pubbliche. Al termine del vertice straordinario tenuto, subito dopo l’abbattimento, il 24 novembre a Bruxelles con i rappresentanti dei 28 Paesi membri dell’Alleanza, il segretario generale Jens Stoltenberg ha invitato alla “calma e alla de-escalation”. Però, aggiunge l’editorialista e docente, “la Turchia ha azzardato facendo leva sul fatto di essere una sorta di figlia prediletta dalla Nato, perché per un quarantennio è stato il baluardo dell’Alleanza atlantica contro la Russia. Sapeva che, nel peggiore dei casi, sarebbe stata protetta”.

IL SOSTEGNO DEGLI USA

Anche il presidente americano Barack Obama ha richiamato tutti alla distensione, ma in ultima istanza ha difeso Ankara e non ha mancato di criticare Mosca. “Stiamo ancora aspettando i dettagli di quanto è successo – ha detto il capo di Stato Usa al termine della conferenza stampa con il presidente francese François Hollande, in visita a Washington -, ma la Turchia ha diritto di difendere il suo territorio e il suo spazio aereo. E le operazioni russe ai confini con la Siria sono un problema costante. È però importante – ha concluso – che Turchia e Russia parlino”.
“Obama”, spiega Corneli, “difende Erdogan per diverse ragioni che il presidente conosce e sfrutta. In primo luogo perché è funzionale allo scontro con la Russia sia su un piano più ampio, che coinvolge anche l’Ucraina, sia perché non vuole fare marcia indietro sull’uscita di scena di Assad, che Putin vuole invece difendere per una questione di prestigio e per mostrare affidabilità verso i propri alleati. Ormai è una questione di principio, da entrambe le parti”. Infine, “non bisogna dimenticare che negli Stati Uniti siamo ormai in piena campagna elettorale e molte delle scelte presidenziali sono orientate alla politica interna. I temi della Guerra fredda e del rapporto col Cremlino hanno ancora un forte ascendente sull’elettorato e tanto i repubblicani quanto i democratici, seppur su posizioni diverse, li affrontano”.

Perché Usa e Ue non mollano la Turchia

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