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PerugiaDa quando la Turchia ha iniziato la sua nuova fase operativa in Siria (e dintorni), i media italiani hanno reagito con stupore all’azione abbinata contro IS e curdi. I media italiani, però, non seguono con assiduità certe vicende, per questo si sono stupiti ─ basta pensare che domenica Alberto Flores d’Arcais è uscito su Repubblica con un articolo che raccontava della possibile fuga dal Califfato di “Jihadi John”, il jihadista inglese dell’IS protagonista dei video di decapitazione degli occidentali: una notizia la cui fonte era il tabloid inglese Mirror (come dire niente).

La Turchia, che da tempo era considerata un subdolo alleato dell’IS, attacca l’IS? La Turchia mentre attacca l’IS colpisce pure le postazioni dei curdi, che mo’ c’eravamo abituati a considerarli alleati? (È la linea turca, bellezza ─ Stacce“)

Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha più volte dichiarato in passato che il suo stato è orientato verso la lotta a tutti i terroristi ─ e la Turchia considera quelli del Pkk, i curdi, terroristi alla stregua degli uomini del Califfo: anzi pure peggio. Per questo sotto i missili dei caccia turchi, sono finiti anche i curdi. E che siano quelli turchi del PKK o quelli siriani dell’YPG poco conta: perché sono alleati e perché sono considerati entrambi ostili. E per Ankara, che ha fin qui agito in modo unilaterale, non è certo un problema colpire le postazioni dei curdi siriani, quelli che sono stati fin qui difesi dall’alto dalla Coalizione ─ si ricorda che non c’è stato giorno in cui i raid “anti-Is” non hanno colpito le posizioni del Califfato nel nord siriano, favorendo di fatto l’avanzata dei curdi, a cominciare da Kobane, fino ad arrivare a Tal Abyad e Ain Issa, le ultime città riconquistate dall’YPG al confine turco con l’appoggio aereo della Coalizione.

Ora molti osservatori internazionali, ritengono che l’intervento possa trasformarsi presto in azione di terra (ufficialmente smentita da Ankara) e poi dirigersi anche contro le postazioni siriane di Bashar al Assad ─ e pure in questo caso, avviso preventivo, poco ci sarebbe da stupirsi, visto che la Turchia considera la deposizione di Assad uno degli obiettivi in cima alla lista dei dossier di politica estera (tanto quanto, e forse più, combattere l’IS e i curdi).

Tra le motivazioni della scelta interventista turca adesso e non prima, c’è non solo l’escalation di violenza all’interno del proprio territorio ─ 32 vittime a Suruç tra i giovani curdi radunati per andare ad aiutare la ricostruzione di Kobane, in Siria, vicenda che rappresenta il primo attentato simbolico firmato IS in Turchia (anche se si attendono le conferme definitive); l’uccisione, mercoledì, rivendicata dal Pkk, di due poliziotti accusati di complicità con lo Stato islamico a Ceylanpinar; giovedì un poliziotto ucciso (senza rivendicazione) a Diyarbakir, “capitale” del Kurdistan turco; e infine, sempre giovedì, un sottufficiale ucciso e un soldato ferito da colpi provenienti dalla Siria a cento chilometri da Suruç, nella regione di Kilis. C’è dietro pure una necessità politica: il premier incaricato Ahmet Davutoglu (uomo di Erdogan) non riesce ancora a costruire un governo, con le elezioni anticipate che diventano sempre più vicine e con Erdogan che «ha tutto l’interesse a eccitare un clima di guerra per continuare a dominare il quadro politico interno», come ha scritto Carlo Panella sul Foglio.

La questione che però è degna di nota più che altro è un’altra. Secondo quanto scrive il Washington Post, Turchia e Stati Uniti avrebbero concordato la creazione di una safe zone lungo il confine turco-siriano, nell’ottica di un maggiore impegno militare turco e americano contro il Califfato (vedere alla voce “utilizzo della base di Incirlik”). Si tratta di 68 miglia di lunghezza per 40 (o 25, si dice) di profondità (ma è da stabilire definitivamente) a est dell’Eufrate, fino alla città di Aleppo ─ che dovrebbe poi essere conquistata dai ribelli, protetti dalla copertura aerea americana e turca. Aree non proprio tranquille, se si pensa che all’interno di questo territorio c’è la città di Dabiq, che ha un enorme valore simbolico nella teologia apocalittica di Baghdadi. L’accordo, comunque, sarebbe uno dei vincoli proposti dalla Turchia per l’utilizzo della strategica di Incirlik ─ che per la Coalizione significa maggiore vicinanza logistica, e dunque maggiore efficacia d’azione.

Quella della buffer zone, o safe zone, o di fatto no-fly zone, è una delle incessanti richieste turche da quando l’insurrezione siriana si è trasformata in una vera e propria guerra civile. Non c’è da stupirsi nemmeno in questo caso se Ankara è tornata alla carica sulla richiesta, ma tuttavia va sottolineato che finora gli Stati Uniti s’erano detti sempre contrari ─ anche se si era già anticipato su Formiche, che la no-fly zone sul nord siriano poteva diventare qualcosa di più concreto che uno slogan. E di fatto, ancora da Washington stentano a definire ufficialmente quella fetta di territorio come una zona protetta “al volo”. La Casa Bianca teme che la creazione di queste fascia possa andare in contrasto con il governo di Damasco, che nell’area sta combattendo i ribelli.

Ora, si capisce che il tutto appare complicato: perché in effetti, quei ribelli che combatte il governo di Damasco in molti casi sono amici dei turchi (per questo a Ankara vogliono la buffer zone, più che per ragioni umanitarie) e in alcuni casi anche dell’Occidente. E allora perché non proteggerli? Perché servono vie de facto e non de iure: vie ufficiose non ufficiali. La storia è sempre quella, il regime di Damasco non è un partner, anzi ufficialmente è una specie di nemico, solo che de facto (appunto) combatte un avversario comune, lo Stato islamico, ritenuto ancora più pericoloso: e dunque l’Occidente, per pragmatismo, accetta il male minore, Assad ─ e cerca di non creare troppe occasioni di tensione, come la no-fly zone potrebbe diventare.

Ora la questione è questa: mentre nel momento in cui la Coalizione ha iniziato i raid in Siria, Damasco (avvisato delle operazioni) non aveva alcun interesse su quei territorio colpiri, dato che non li controllava più, ora nella zona al confine turco-siriano ─ dove andrebbe a crearsi la zona protetta ─ ci sono diverse aree su cui il regime sta ancora combattendo (la principale è di certo Aleppo, la seconda città più grande della Siria). E la possibilità che i ribelli moderati protetti da Turchia e USA prendano il controllo di quelle aree, non è certo la prima delle volontà del governo di Assad.

In tutto c’è da mettere un altro pezzo di carne sulla brace. L’interpretazione del termine “ribelli moderati” ha un valore estremamente diverso tra Ankara e Washington, con i primi che sono molto più blandi nell’includere anche forze di matrice islamista e i secondi che hanno speso anni di selezioni per arrivare a formarne un contingente “puro” composto dall’esiguo numero di 60. Questo perché la Turchia ha un forte interesse nel rovesciare Assad, e dunque non si fa scrupolo sul chi usare per farlo, perché ha di certo un rapporto più aperto con le stanze islamiste e perché vive l’enorme problema dell’emergenza profughi ─ veicolo di trasporto del jihad all’interno del proprio territorio. Per i turchi, la conquista da parte dei ribelli di ampie fette di territorio ai confini, magari con la copertura sancita dalla zona di sicurezza, significherebbe anche limitare gli ingressi nel proprio territorio di chi fugge dalla guerra. E sarebbe un test per una possibile via di amministrazione del futuro siriano.

Il New York Times, che ormai parla di “relatively moderate Syrian insurgents” per non disallinearsi troppo con l’Amministrazione e non dire che ci sono fazioni apertamente islamiste tra quelle che verranno di fatto protette dagli americani dopo l’accordo di collaborazione con la Turchia, si fa la più importante delle domande: che succederà se l’Aviazione di Assad colpirà le postazioni di questi ribelli al nord della Siria? (Nota: non è una questione di lana caprina, visto che quelle aree che ricadono all’interno della wannabe-safe-zone, sono costantemente colpite dagli elicotteri del regime e quei ribelli sono gli obiettivi preferiti dall’esercito governativo).

Ancora ci sono dettagli non noti sull’accordo turco-americano, e forse la risposta a questa domanda sta in uno di quelli.

@danemblog

 

 

 

 

 

La Turchia più che altro vuole una buffer zone al confine

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