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L’Italia che scommette sull’economia green non può che vivere la Cop21 come una grande occasione per scrivere il futuro. Abbiamo la consapevolezza e insieme la necessità di dover raggiungere assieme a tutti gli Stati del pianeta un’intesa alta e allo stesso tempo realistica, che non vanifichi l’enorme mobilitazione attorno al tema del contrasto ai cambiamenti climatici che si è verificata lungo tutto il 2015, un anno di svolta per la comunità internazionale nelle tematiche ambientali. Trovare un accordo per contenere il surriscaldamento globale sotto l’asticella dei 2°C non è un’urgenza solo di alcuni Stati o delle prossime generazioni: lo è per tutto il mondo, per il presente immediato prima ancora che per il futuro. Il non fare può costare carissimo, in tutti i sensi.

Pensiamo ai 250 milioni di rifugiati ambientali che, se non verrà tenuta sotto il livello di guardia la febbre della Terra, lasceranno i loro territori invivibili e migreranno per trovare rifugio dagli effetti immediati dei cambiamenti climatici: gli eventi atmosferici estremi, la mancanza di risorse vitali e le guerre per accaparrarsele.

Pensiamo poi ai costi economici, ai 5 trilioni di dollari di investimenti aggiuntivi dal 2020 a 2035 che, ci dice l’Agenzia internazionale dell’energia, serviranno per sostituire le tecnologie e gli impianti obsoleti che oggi utilizzano in maniera inefficiente le risorse naturali. Ma anche ai 500 miliardi di dollari aggiuntivi in termini di investimenti che servirebbero per sostenere nel prossimo decennio l’inazione sul contrasto ai cambiamenti climatici. Raggiungere un’intesa equa, vincolante, trasparente e con impegni misurabili nel tempo significa allora passare il confine tra vecchia e nuova economia. Tra la sconfitta rappresentata dal dover subire le tensioni socioeconomiche che i cambiamenti climatici innescano e la volontà reale di superarle.

In questi mesi abbiamo registrato tanti segnali importanti verso un’intesa. Voglio innanzitutto citare l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che ha restituito alla questione dei cambiamenti climatici quella dimensione umana ed etica che in questi anni aveva spesso smarrito, a vantaggio di letture puramente economiche e di ordine tecnico. Un’interpretazione del problema che il Santo padre ha ribadito all’Assemblea delle Nazioni Unite di New York e che richiama alle proprie responsabilità ogni singolo governo e ogni singola coscienza. Concetti come ecologia integrale o debito ambientale ci indicano con chiarezza cosa siano chiamate a fare le nazioni più ricche per sostenere quelle più povere, per avvicinare il pianeta a un modello di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e morale. È stata l’Europa, grazie anche al ruolo attivo dell’Italia nel semestre di presidenza, ad aver dato per prima l’esempio migliore di coesione e responsabilità.

L’accordo raggiunto nel nostro continente – riduzione del 40% delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990, l’aumento del 27% del consumo di fonti energetiche rinnovabili e il raggiungimento di un target indicativo, pari al 27%, nel settore dell’efficienza energetica – è oggi il più autorevole viatico per un accordo globale e ispiratore di altre importanti prese di posizione: gli impegni congiunti presi dai massimi emettitori di anidride carbonica, Cina e Stati Uniti, il Clean power plan di Obama, il patto per il Clima di dieci oil&gas tra cui l’Eni, l’elevatissimo numero di contributi già arrivati dagli Stati per Parigi. L’Europa nella capitale francese ha una missione complessa e importante: può e deve essere il motore di un’intesa che tenga dentro tutti, che sia accettabile per i grandi come per i piccoli Paesi, per quelli ricchi e per quelli in via di sviluppo. L’orizzonte che l’Europa s’è data è “zero emissioni” al 2100. Non è un sogno, ma un punto di riferimento alto e qualificante, un obiettivo al quale tendere e verso il quale spingere la comunità internazionale. Ma per farlo occorre la consapevolezza politica, prima ancora che scientifica, della necessità di un accordo in grado di rappresentare il paradigma di un nuovo ordine mondiale.

Che sia cioè in grado nello stesso momento di: ridurre le emissioni globali, mettere in campo risorse finanziarie adeguate per gli interventi di adattamento necessari ai Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici, definire nuove tecnologie sostenibili per uno sviluppo socioeconomico dei Paesi poveri senza ricorrere ai combustibili fossili, portarci a un sistema energetico con risorse rinnovabili che giunga all’efficienza energetica. Avviarci, insomma, a un mondo con meno disuguaglianze – senza le stridenti contraddizioni dei nostri tempi – verso un modello di sviluppo pienamente circolare. L’Italia per tutto questo è pronta a fare la sua parte. L’ha fatto nel semestre italiano di presidenza delle istituzioni europee, in cui ha riaffermato la centralità della dimensione ambientale nelle scelte economiche, la cui conclusione è coincisa con il significativo risultato della Cop20 di Lima. Lo ha fatto tenendo fede ai suoi impegni e raggiungendo – come ha ufficializzato l’Onu – il traguardo di riduzione delle emissioni fissato dal primo periodo di impegno del protocollo di Kyoto. L’Italia insomma ci crede e ha le carte in regola per essere ottimista.

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