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Le reazioni, fra cronache, commenti, retroscena e quant’altro sull’avvicendamento annunciato per metà gennaio fra Ezio Mauro e Mario Calabresi alla direzione della Repubblica, mi hanno fatto tornare alla mente una lontana chiacchierata d’autunno con Indro Montanelli. Erano i primi, e migliori, anni del Giornale, che aveva ancora bisogno dell’aggettivo “nuovo” nella testata, per quanto in carattere assai piccolo, per una distrazione di Gianni Granzotto. Che non si era accorto, nei preparativi della felice e coraggiosa avventura montanelliana, che di Giornale nell’anagrafe editoriale ce ne fosse già uno, per quanto periferico.

Parlavamo quella volta della Dc, delle sue correnti, dei suoi cavalli di razza e ronzini, delle loro interminabili lotte, dei loro sempre labili compromessi, che avevano finito per indebolire il partito e fargli rischiare il sorpasso comunista. Per evitare il quale Montanelli, pur consapevole dei limiti dello scudo crociato, invitava i suoi lettori a votare Dc “col naso turato”, riuscendo a fare arrabbiare contemporaneamente i vecchi amici laici, a cominciare da Ugo La Malfa, destinati a fare le spese del pieno della Dc alle urne, e i nuovi amici democristiani. Che, con la sola eccezione di Amintore Fanfani, “l’unico -diceva Montanelli- affetto da sano realismo”, non gli perdonavano la puzza che, con quel naso turato, anche lui finiva per diffondere attorno al loro partito.

Indulgente, in quei frangenti politici, verso i vizi e i vizietti dello scudo crociato, tanto da correggermi il titolo di un mio libro edito praticamente dal Giornale Dc contro Dc– preferendo “un partito di gomma” al mio “partito di cera”, che pure avevo concepito per sottolinearne la capacità anche di adattarsi realisticamente alle circostanze, Montanelli mi disse che “quanto a perfidia, c’è chi fa una bella concorrenza ai democristiani e, in generale, ai politici: noi giornalisti”. E mi raccontò, con particolari ancora inediti, di come e perché avesse dovuto lasciare il Corriere della Sera con l’avvicendamento alla direzione fra l’amico Giovanni Spadolini e Piero Ottone, portandosi via come collaboratori quella che lo stesso Ottone avrebbe poi onestamente definito “l’argenteria” di via Solferino.

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Tracce di pur amichevole perfidia le ho trovate nel suggerimento dato da Vittorio Feltri a John Elkann e Sergio Marchionne, anche se a vuoto, di far fare a Matteo Renzi l’en plain nei piani alti dell’editoria trasferendo Aldo Cazzullo dal Corriere della Sera alla direzione della Stampa. Dove invece è stato nominato, dopo poche ore da questo consiglio, Maurizio Molinari, già inviato dello stesso giornale negli Stati Uniti e ora in Medio Oriente.

Feltri si è speso in questo curioso messaggio a costo di procurare qualche nuovo imbarazzo, per ammesso “conflitto d’interessi”, al figlio Matteo, bravissimo, che è giustamente una delle firme di punta della Stampa.

Un po’ perfida, francamente, mi è apparsa anche la previsione, o sensazione, di Vittorio che l’arrivo del talentuoso ma “galleggiante” Calabresi potrà segnare “la chiusura della più gloriosa stagione di Repubblica”.

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Giampaolo Pansa, al solito bravo e schietto ma perfido pure lui quando ci si mette, forte anche del fatto di conoscere Repubblica meglio di Feltri per averci lavorato, si è mostrato curioso di valutare più che l’arrivo di Calabresi alla direzione della corazzata della sinistra italiana, l’uscita di Mauro, che ha più di un mese e mezzo di comando ancora a disposizione.

Visto che il mio amico Giampaolo ha voluto ricordare un editoriale urticante del direttore ora uscente di Repubblica, pubblicato il 16 giugno scorso, dopo le elezioni amministrative, per dire anche nel titolo a Renzi di essere ormai un “Matteo senza terra”, un po’ di perfidia mi fa sospettare che Pansa voglia vedere se Mauro imiterà Ferruccio de Bortoli. Che alla direzione del Corriere dedicò pure lui un urticante editoriale al presidente del Consiglio, e segretario del Pd, per invitarlo a guardarsi da se stesso, cioè da un eccesso di sicurezza e di ambizione, e per avvertire “sentore stantio di mafia” attorno al cosiddetto Patto del Nazareno, che allora lo legava a Silvio Berlusconi con i buoni uffici di Denis Verdini. Dopo qualche mese, lasciando la direzione, de Bortoli diede a Renzi del “maleducato di talento”.

Anche se conosco Ezio non dico da quando portava professionalmente i pantaloni corti ma quasi, non so se deluderà o no il nostro comune amico Giampaolo. Né mi va, francamente, di scommetterci, come forse avrebbe fatto Montanelli. Che, pur preferendo abitualmente il fioretto, consono anche alla sua figura lunga e sottile, sapeva usare al bisogno anche la scimitarra.

La Repubblica di Calabresi, la perfidia di Feltri e la curiosità di Pansa su Mauro

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