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A dieci giorni dagli attentati di Parigi gli equilibri internazionali continuano a essere in movimento. La scorsa settimana vi sono stati dei durissimi interventi di Vladimir Putin, volti a intensificare le azioni militari in Siria e a dare appoggio alla Francia. Oggi è stata la volta di David Cameron e François Hollande che, in occasione della commemorazione delle vittime davanti al Bataclan hanno ribadito l’impegno comune, avallando l’intensificazione dei raid aerei in Siria.
Di particolare interesse è stato tuttavia l’intervento che Barack Obama ha tenuto a Kuala Lumpur. Il presidente degli Stati Uniti, infatti, ha profittato dell’occasione per spiegare non soltanto l’atteggiamento che la sua amministrazione di Washington intende tenere dal punto di vista pratico, ma la visione americana su questa complessa situazione internazionale.

Da un lato, come si era immediatamente capito, la minaccia terrorista è una priorità assoluta, sia in termini di sicurezza interna e sia come risposta al violento attacco europeo. Ma la linea di combattimento dello Stato Islamico richiede uno sforzo largo, condiviso e risoluto per cancellare la causa che lo alimenta e la paura che suscita nei cittadini. Il pericolo maggiore è l’abitudine, vale a dire che vi sia un’assuefazione al rischio presente nelle nostre metropoli che determini pian piano una regressione degli spazi di libertà.
Obama ha replicato che, sebbene non vi sia una protezione al cento per cento dall’insicurezza che la violenza imprevedibile di un kamikaze può innescare, ai Paesi vittime, ossia a tutti noi, non manca il potere necessario per reagire e sconfiggere questo nemico. La forza delle democrazie è proprio quando i popoli sentono atterrite le libertà fondamentali, come girare per strada, andare al ristorante o al cinema: a quel punto diventa difficile che la politica non sia fortificata e investita d’efficacia dalla gente a svolgere il suo ruolo di difesa.

Al di là però delle giuste considerazioni di principio, qui in questione è soprattutto l’insieme dei valori che costituisce il nostro modo di vivere. La legittima reazione non può trascinare l’Occidente verso un imbarbarimento e una sorta d’incivilimento e di scivolamento nella barbarie. Si deve garantire i tempi rapidi di eliminazione dello Stato Islamico senza tuttavia che siano sospesi di diritti fondamentali che ispirano da sempre le nostre azioni militari.

Ovviamente questa importante osservazione ha spinto Obama a parlare del vero punto di snodo costituito dalla Siria. Le sue parole su Putin, infatti, sono state moderatamente positive, rendendo pubblico così il buon confronto che vi è stato con lui giorni fa, anche se resta sul campo la grande questione di Bashar al-Assad. Giustificare il sostegno ad Assad in nome dell’anti terrorismo non regge, proprio perché si tratta di un regime non voluto dal suo popolo e che esercita un potere in totale violazione dei diritti umani. Obama, insomma, chiede a Putin di concentrare le sue forze contro il vero nemico, non sostenendone contemporaneamente un altro.

La soluzione sta appunto nell’avviare un processo di transizione in Siria parallelamente a un coordinamento ampio e compatto in chiave anti Isis e anti Assad. Sapendo che l’obiezione russa è che senza il dittatore vi è un concreto rischio di fare un favore al Califfato e di generare una specie Libia bis, Obama ha ribadito con decisione che è una priorità assoluta salvaguardare lo Stato siriano, evitando che il paese scivoli nel caos. D’altronde, non sembra che gli interventi russi abbiano per ora prodotto dei solidi risultati contro il terrore.

Resta aperta però la questione dei paesi a maggioranza islamica che dovrebbero partecipare come alleati a questa cooperazione allargata, in particolare Arabia Saudita e Iran. Si tratta di due anime musulmane opposte tra loro, una sciita, l’Iran, e l’altra sunnita, l’Arabia. Dopo la rivoluzione del 1979, che portò alla deposizione dello Scià e all’avvento dell’Ayathollah Khomeyni, i sauditi si sono sempre contrapposti all’impianto teocratico e popolare del regime di Teheran. Mentre Assad è sostenuto dall’Iran, l’Arabia è un protettore forte della minoranza sunnita opposta al governo. Ragionamenti simili riguardano l’Iraq, sempre più diviso tra sciiti filo iraniani e sunniti filo sauditi.
Pertanto la scelta di Obama di portare entrambi i Paesi a un coinvolgimento comune contro il Califfato è cruciale, anche se non può non incontrare questa enorme difficoltà politica.

Il problema potrebbe essere superato se da Riad e da Teheran venisse un pronunciamento congiunto non di tipo politico ma di tipo religioso. A ben vedere, se gli opposti interessi dei due grandi Paesi sono ben noti, adesso lo Stato Islamico è divenuta una malattia che rischia di uccidere non solo la pace ma lo spirito stesso dell’Islam, piegato indebitamente a strumento di violenza politica.

L’Arabia Saudita, in tal senso, potrebbe trovare qualche utilità ad arginare un progetto sunnita così radicale, se vi fosse la caduta di Assad; mentre l’Iran beneficerebbe della neutralizzazione di un soggetto pericoloso e fortemente anti sciita com’è lo Stato Islamico.

La palla torna così a Putin e a Obama. È certo che i destini di pace delle nostre vite passano attraverso la transizione democratica dello Stato siriano e l’eliminazione alla radice dell’incubo di un fondamentalismo terroristico: un doppio obiettivo, insomma, molto delicato, che non può non ottenersi comunque parallelamente.

Obama, la Siria e la lotta al terrorismo

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