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Squadra che vince non si cambia, si diceva una volta, prima che in Grecia vincesse il no. Alexis Tsipras, infatti, ha vinto e ha sacrificato il suo centravanti di sfondamento, il ministro Yanis Varoufakis, nella speranza (si dice) di riaprire le trattative con l’Unione europea e soprattutto con la Germania. Un segnale di forza? Al contrario. Il successo al referendum non è affatto una vittoria nella ben più complessa partita la cui posta è il fallimento della Grecia.

La reazione delle borse è stata negativa anche se, all’apertura, non catastrofica. Molto probabilmente perché erano scese già nella seconda parte della scorsa settimana, quando si era capito che non era possibile nessun accordo. Nel suk dei titoli sovrani si assiste a un rialzo del differenziale con i Bund tedeschi che tornano ad essere sempre più bene rifugio, così come il dollaro. Quest’ultima è una buona notizia per i Paesi esportatori, come l’Italia, tuttavia se collegata all’andamento di tutte le altre variabili diventa un altro fattore di instabilità.

Questa sera all’incontro tra Angela Merkel e François Hollande, così come domani al vertice straordinario convocato a Bruxelles, il convitato di pietra sarà il rapporto del Fondo monetario internazionale secondo il quale il debito greco non è sostenibile, quindi bisogna “ristrutturarlo”: fuor di metafora, allungare la scadenza alle calende greche (non è solo una facile battuta) ed erogare altri 50 miliardi in tre anni, 36 dei quali da parte dei paesi della zona euro.

Non è quello che vuole Tsipras? Sì, salvo il fatto che tutti hanno letto solo le conclusioni del rapporto, mentre il testo addebita il peggioramento e l’insostenibilità a quel che non ha fatto il governo. E’ esattamente quel che pensano i tedeschi, gli stessi francesi ne sono convinti, anche se fanno i cerchiobottisti. Se le cose stanno così, a che pro sganciare altri 36 miliardi?

Riprendere il negoziato, dunque, sarà difficilissimo, forse persino impossibile. In tal caso, Tsipras dovrà dichiarare default e assumersene tutte le conseguenze: chiudere e nazionalizzare le banche (con quali soldi?), commissariare la banca centrale greca, congelare i depositi, chiudere le frontiere. E stampare una nuova dracma? Calma, qui le cose sono complicate, perché il debito è espresso in euro, quindi entriamo in un ginepraio tale che il tango argentino sembrerà un minuetto rococò.

Il rapporto del Fmi dice che nell’autunno scorso la situazione era seria, ma non disperata, soprattutto era sotto controllo. Poi sono cominciati i guai. Intanto, i tassi di interesse si sono mossi all’insu anche per lo stallo del negoziato (e qui s’annida la colpa grave della Ue). Poi l’avanzo primario si è ridotto, ben al di sotto dell’obiettivo fissato (e qui è colpa di Syriza). Le privatizzazioni si sono fermate. La crescita, che si era affacciata nella seconda metà dell’anno, s’è arrestata. Non solo, le stesse concessioni che la trojka aveva fatto durante la trattativa, soprattutto la riduzione negli obiettivi dell’avanzo primario (spese ed entrate al netto degli interessi), sono tali da rendere impossibile il pagamento delle scadenze debitorie (secondo il Fmi il surplus dovrebbe superare i 4 punti di pil l’anno).

Può darsi che il peggioramento delle condizioni economiche sia stato perseguito con perfida quanto lucida strategia da Tsipras, in modo da mettere i creditori con le spalle al muro e non pagare. Ma se così ha fatto, allora il suo nome con è Alexis, ma Tafazzi. Prima ha trattato con la pistola carica sul tavolo, adesso l’arma gli scoppia in mano, mettendo a repentaglio il suo Paese e buona parte degli Stati europei. Tra i quali, in prima fila, c’è l’Italia.

La prima conseguenza interna è che le linee guida con le quali Pier Carlo Padoan aveva costruito il Documento di economia e finanza, sono destinate a cambiare in peggio. E’ evidente che l’Italia, se non vuole essere risucchiata nella girandola dello spread, deve preparare una manovra di politica economica molto rigorosa. Bisogna trovare 20 miliardi di euro per far fronte a impegni e promesse, ma occorre fare di più, senza aumentare le imposte (ridurle sarebbe l’ideale, ma richiede gesti coraggiosi attualmente non prevedibili). Dunque, si deve tagliare in modo consistente la spesa pubblica corrente e aumentare quella per gli investimenti, esattamente il contrario di quel che è successo nei sette anni di vacche magre. Sarà durissimo. La spending review è sempre fallita. Bisognerà tornare ai tagli lineari, scatenando reazioni a 360 gradi. In Italia come in Grecia chi tocca la spesa pubblica muore. Sono stati decurtati i salari e non è successo niente. Se invece si riduce la spesa in Paesi ad alto livello assistenziale nei quali i partiti politici pescano tutti nella piccola borghesia impiegatizia pagata dai contribuenti, succede il patatrac.

Renzi è già nella morsa dei marxisti-lepenisti alleati di fatto con i grillini. Il Pd si è spaccato e a questo punto subirà una scissione (non grande, ma comunque dolorosa). In Forza Italia la linea Brunetta getta quel che resta del partito in braccia a Matteo Salvini. C’è da sperare in una sorta di Nazareno europeo, un patto per assicurare la tenuta dell’Italia dentro l’euro, soprattutto se vincerà la linea di chi pensa che sia il momento di mandare avanti con chi ci sta e con chi può. Ma Silvio Berlusconi ha ancora la forza e il coraggio politico per tornare sulla scena da protagonista?

In conclusione, il no greco allo stato attuale è una scossa sismica che fa crollare quel che resta della reputazione della Grecia, aguzza l’appetito dei falconi teutonici e mette Matteo Renzi in estrema difficoltà. L’Italia non è pronta. L’economia non sta andando bene come si sperava. La politica è tornata nel pollaio di sempre. La governabilità si è ridotta. Il cammino delle riforme è minacciato. Altro che kalimera, kalinihta.

Perché il No della Grecia attapira Renzi

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