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Barack Obama conquistò nel 2008 il primo mandato alla Casa Bianca anche grazie alla “legge del pendolo”. Con questa espressione la scienza politica designa la tendenza all’o­scillazione del voto da un partito all’altro e rivela la diffidenza degli americani verso il potere di una parte a favore della democrazia dell’alternanza. Dopo “l’estremista” George W. Bush, che aveva puntato sull’interventi­smo militare all’estero e il fondamentalismo religioso all’interno, il pendolo rimbalzò dal­la parte opposta, il più lontano possibile. Fu così che venne eletto (e poi rieletto nel 2012) un nero che suscitò grandi speranze e grandi ostilità, preferito dai democratici a una can­didata più accreditata come Hillary Clinton.

Alle elezioni di mid-term del 2014 il pendo­lo ha oscillato dalla parte opposta del presi­dente a favore dei repubblicani.
La reazione alla “sorpresa” Obama che aveva “offeso” la sensibilità dei tradizionalisti conservatori e, ancor più, dei settori razzisti presenti nella società americana, si manifestava con vigo­re. Aveva avuto effetto l’attacco alla riforma sanitaria “socialista” e la campagna di deni­grazione della “debolezza” del presidente (“islamico”) che avrebbe offuscato l’orgoglio nazionale. Le elezioni di mezzo termine, del resto, seguono una logica diversa dalle pre­sidenziali, in quanto lo scontro si materia­lizza collegio per collegio e Stato per Stato con un peso determinante delle candidature personali.

È difficile che alle presidenziali del 2016 il pendolo giochi un ruolo decisi­vo come in altre occasioni. Obama non è un “estremista” ma un “pragmatico centri­sta” che ha saputo tenere conto degli umori della popolazione (con l’eccezione della sa­nità). La sua presidenza, nell’insieme, sarà probabilmente ricordata come positiva. La crisi economica è stata superata, anche se il presidente ne ha poco merito. La disoccupa­zione è drasticamente diminuita. La Borsa ha toccato un nuovo record storico. E nella politica economico-fiscale il presidente si è mantenuto in equilibrio tra Wall Street e Main Street. Nessun soldato americano è stato mandato a morire in giro per il mondo. Sono stati lega­lizzati milioni di immigrati latinos, cosa che ha incontrato il favore anche degli agricol­tori del sud e dell’ovest.

È sì vero che dopo la crisi si è verificato un generale impove­rimento della classe media, ma sono stati messi in cantiere diversi provvedimenti di welfare che hanno ricevuto una buona acco­glienza. I tumulti razziali hanno riproposto la questione della povertà dei neri, ma la responsabilità degli scontri ricade per lo più sui gruppi dominanti locali, asserragliati nel­le polizie di città che fanno riferimento agli avversari della presidenza federale. Al momento, senza candidature definitive, le prospettive elettorali sono imponderabili. Nell’asino (simbolo democrat) è probabile che Hillary Clinton la spunti se non interverran­no sorprese da qualche scheletro nell’arma­dio e da finanziamenti ambigui.

I possibili contendenti di Hillary hanno una colorazio­ne di sinistra, come nel caso della senatri­ce del Massachusetts Elisabeth Warren, ma tutti sanno che non si entra alla Casa Bianca da posizioni estreme (esemplari i casi del re­pubblicano Goldwater nel 1964 e del demo­cratico McGovern nel 1972). Più variegato è il campo dell’elefante (repub­blicano). I contendenti appartengono per lo più alle ali conservatrici, pur con diverse cara­ture. Il giovane Rand Paul è un conservatore libertario che si batte contro il big government. Marco Rubio, Florida, e Ted Cruz, Texas, pos­sono attrarre la minoranza dei latinos che rap­presenta quasi il 20% dell’elettorato.

Rimane Jeb Bush – forse il favorito, ma le primarie riservano sempre sorprese – il quale, diversa­mente dal fratello, è un moderato disponibile al dialogo e al compromesso sulle orme di suo padre, presidente dopo Reagan. La politica estera sarà un’importante sfida per il nuovo presidente. Si tratterà di ripen­sare il ruolo della nazione più potente del mondo e ridisegnare un inedito equilibrio multipolare. Ma le questioni internazionali influiscono poco sul voto dell’americano me­dio se non nei risvolti economici e nell’or­goglio nazionale.

I repubblicani dopo Cuba, Iran, Ucraina e Israele, e in vista dei due gran­di accordi di cooperazione, il Trans-pacific partership (Tpp) con l’Asia e il Transatlantic trade investment partnership (Ttip) con l’Eu­ropa, hanno dichiarato guerra al presidente, sospinti dai settori ideologici neocon, anche se i diversi candidati sono divisi tra la linea realistica e quella interventistica. I fattori che più influiranno sui compor­tamenti di voto, oltre a quelli economico-sociali, saranno, a mio avviso, di tre tipi. La partecipazione elettorale dei non-bianchi – neri, latinos e misti – che nel 2008 determi­nò la vittoria di Obama. Il peso del denaro dopo la sentenza della Corte suprema che ha liberalizzato le donazioni: i fratelli Charles e David Kock investiranno sui repubblica­ni 900 milioni di dollari. E l’orientamento dell’elettorato femminile nel caso probabile che Hillary sia in corsa.

Massimo Teodori, Saggista

Articolo tratto dal numero 104 (Giugno 2015) della rivista Formiche

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