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Sono due le regioni che in questi giorni non fanno dormire sonni tranquilli a Matteo Renzi: la Liguria e la Campania. E’ lì che si gioca davvero il futuro del Pd, seppure per ragioni differenti. Ed è su quelle elezioni che sono concentrate le attenzioni maggiori. Le roccaforti rosse di Toscana e Umbria non destano infatti preoccupazioni, soprattutto la prima; le Marche richiedono qualche attenzione in più giusto perché lì c’è un governatore ex Pd (Gian Mario Spacca) che s’è fatto la sua lista civica con mezzo centrodestra. In Puglia, poi, Forza Italia s’è azzoppata da sola con la scissione fittiana, dunque Michele Emiliano viaggia spedito verso il traguardo. Mentre il Veneto, con buona pace di Alessandra Moretti, viene dato per perso; stando anche agli ultimi sondaggi,il presidente leghista Luca Zaia non ha rivali.

LA POSTA IN GIOCO IN LIGURIA

Il problema del Pd in Liguria, a differenza che in Campania, è prettamente nazionale. E’ vero che ci sono beghe locali, è vero che il partito genovese alle primarie ha premiato Sergio Cofferati perché sotto la Lanterna la candidata renzian-burlandiana Raffaella Paita non gode di grandi consensi. Ma la sfida da sinistra lanciata dal deputato civatiano Luca Pastorino sta assumendo sempre di più i caratteri di un esperimento regionale da riproporre altrove. Non a caso il premier Renzi non passa giorno che non punti il dito contro il fuoriuscito del Pd accusandolo di fare il gioco del centrodestra. Ieri ci si è messo pure il presidente del partito Matteo Orfini a tuonare contro quello che ha definito un patto tra l’altro deputato fresco di addio e ispiratore di questa manovra, ossia Pippo Civati, e il candidato berlusconiano Giovanni Toti. Sul carro di Pastorino c’è poi salito pure Stefano Fassina, ormai con un piede fuori dal Pd, e si attendono altri esponenti della minoranza dem pronti all’endorsement.
La variegata coalizione di sinistra messa in piedi da Pastorino, della quale fa parte anche Sel ma non l’Altra Liguria, gode del favore di ambienti cigiellini e movimentisti; sotto la benedizione da Bruxelles di Cofferati, si propone come un laboratorio, un prototipo di coalizione sociale (con un occhio strizzato al leader Fiom Maurizio Landini) per lanciare da sinistra la sfida al premier, in alternativa al Movimento 5 Stelle. In assenza di una convergenza nazionale tra le minoranze dem, tocca quindi alla Liguria fare da apripista per una forza di sinistra anti-Renzi pronta a misurarsi con le urne. E pronta a fare male al Pd, se è vero che potrebbe togliere voti decisivi alla Paita favorendo un’eventuale vittoria del centrodestra che rischierebbe di creare un terremoto al governo.

IL CASO CAMPANO PARADIGMA D’IMPOTENZA RENZIANA

Discorso diverso in Campania, dove sono le dinamiche locali ad avere il sopravvento. Anzi, lì il problema ha un nome e un cognome: Vincenzo De Luca. La candidatura dell’ex sindaco di Salerno passata dalla vittoria alle tormentate primarie – e mai pienamente digerita dal Pd regionale e nazionale che ha dimostrato la sua inconsistenza nel non riuscire a evitarla – rappresenta un imbarazzo costante per Renzi, il quale non a caso nei giorni scorsi ha speso buone parole per il governatore di Fi Stefano Caldoro. De Luca è un condannato (in primo grado) e in caso di elezione per via della legge Severino non potrà sedere sulla poltrona più alta di Palazzo Santa Lucia; ma questo è un aspetto passato ormai in secondo piano, travolto com’è dalla polemica sui cosiddetti “impresentabili” nelle liste civiche alleate del Pd. Imbarcando condannati e indagati, (ex) fascisti, cosentiniani e fuoriusciti dal centrodestra fino a Ciriaco De Mita. Solo che da quelle parti il premier non è riuscito a metter becco in nessuna questione, non ha avuto diritto di parola e di intervento in nessun ambito, ha dovuto assistere a quel che accadeva con disarmante impotenza. Non voleva le primarie e preferiva un candidato unitario dall’alto, ma questo non è avvenuto. Non è riuscito a piazzare un suo uomo (o donna) partorito dalla Fonderia delle idee della coppia Francesco Nicodemo e Pina Picierno, perché Gennaro Migliore quanto ha capito a quale bagno di sangue sarebbe andato incontro s’è fatto da parte. Non è nemmeno stato in grado di mettere un freno alle imbarazzanti alleanze orchestrate da De Luca pur di raggranellare qualche voto in più. Insomma, Renzi in Campania ha dimostrato tutta la sua incapacità nel controllare le nomenklature locali del partito.

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