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Sarà la Thailandia a ospitare nelle prossime ore un incontro tra il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e Wang Yi, ministro degli Esteri cinese e capo della diplomazia del Partito/Stato. Wang ha l’incarico di gestire questi faccia a faccia, che spesso sono propedeutici a vertici tra leader e servono a segnare il perimetro dei rapporti. Nei mesi scorsi, le comunicazioni attraverso questo canale secondario sono state fondamentali per procedere nell’attuale fase di stabilizzazione delle relazioni. Lo sono altrettanto per mantenerla.

Erano stati i due funzionari a trovare, lo scorso anno, il bandolo della matassa di tensioni tra le due super potenze globali e recuperare in qualche modo le relazioni — arrivate al minimo storico da quando i Paesi hanno stabilito legami diplomatici nel 1979 per le divisioni su Taiwan, la competizione tecnologica, le misure di sicurezza economica. Tutti temi ancora sul tavolo.

Incontri (riservati) fondamentali

L’appuntamento in Thailandia sarà il loro primo contatto da quando il presidente Joe Biden ha incontrato il suo omologo cinese Xi Jinping a San Francisco a novembre. La notizia è stata data con uno scoop dal Financial Times, che evidentemente ha ricevuto un’imbeccata tattica da chi voleva pubblicizzare il meeting. Lo scorso anno Wang e Sullivan si erano visti a Vienna e a Malta, ma senza pubblicità anticipata.

Lo stesso doveva accadere adesso con la Thailandia, visto che non erano state fatte  dichiarazioni ufficiali in anticipo? E allora, perché la prassi della segretezza è stata modificata? L’efficacia degli incontri viene anche data dalla riservatezza: l’attenzione mediatica spesso comporta un eccesso di aspettative e una necessità di mostrarsi agli occhi dei tanti osservatori.

Davanti allo scoop di FT, la Casa Bianca ha confermato che i due si vedranno, aggiungendo che “continua l’impegno assunto da entrambe le parti al vertice di Woodside del novembre 2023 tra il presidente Biden e il presidente Xi di mantenere la comunicazione strategica e gestire responsabilmente le relazioni”. Successivamente Pechino ha confermato la presenza di Wang in Thailandia da venerdì a lunedì.

Occhi sull’Indo Mediterraneo

Questa fase dei rapporti tra Washington e Pechino è ordinata. La competizione procede, per ora, secondo dinamiche apparentemente controllate. Sono ripresi gli scambi di alto livello, con i cinesi che continuano a preferire gli incontri di carattere economico e commerciale, ma con le comunicazioni military-to-military che comunque riattivate (dopo che il loro stop per mesi era diventato preoccupante).

Sotto questo aspetto politico-militare, dunque securitario, viaggia uno dei temi che dovrebbe essere sul tavolo. Washington sta chiedendo con insistenza a Pechino di pressare Teheran affinché fermi le azioni degli Houthi — l’organizzazione che controlla metà Yemen e che sta destabilizzando le rotte indo-mediterranee con lanci di missili contro le navi commerciali che solcano quelle rotte fondamentali. Gli Houthi ricevono armi dall’Iran, la Cina è partner iraniana e cliente energetico fondamentale per la Repubblica islamica: gli estremi ci sono chiaramente.

E secondo Reuters qualcosa si muove: funzionari cinesi hanno iniziato a chiedere alle loro controparti iraniane di aiutare a controllare la situazione o rischiano di danneggiare i rapporti commerciali con Pechino.

Gli americani sono in difficoltà: vedono che nonostante una missione militare, prima difensiva più allargata con attacchi diretti contro gli Houthi, gli yemeniti non si fermano. Sebbene la richiesta ai cinesi sia sensata, il rischio è che dal punto di vista tecnico Pechino abbia possibilità e capacità limitate. Non è detto infatti che che la Cina abbia le leve per agire su Teheran (che dovrebbe sospendere l’assistenza agli yemeniti, ma probabilmente adesso non ne ha interesse), così come non è detto gli Houthi rispettino le richieste dell’Iran (avendo da anni un’agenda personale). Gli americani ne sono consapevoli.

Ma da un punto di vista strategico, la pressione di Washington tende a far dimostrare alla Cina di essere una potenza responsabile. Con la U.S. Navy impegnata, la Repubblica popolare dovrebbe almeno essere coinvolta in dichiarazioni di condanna e attività diplomatiche — più fantasiosa invece l’idea europea di cooperare da un punto di vista militare per la sicurezza marittima dell’area (dove comunque insiste una base extraterritoriale cinese a Gibuti).

Pechino avrebbe interessi nell’evitare il caos lungo quelle rotte su cui viaggiano i propri beni diretti in Europa, Africa e Medio Oriente. Ma per ora ha voluto evitare di essere coinvolta, per apparire terza e non far parte di un dossier di cui beneficerebbero anche gli Usa (anzi, in varie dichiarazioni i cinesi hanno accusato gli americani di infiammare irresponsabilmente la situazione con le azioni militari contro gli Houthi).

Sullivan ha recentemente sollevato la questione Indo Mediterraneo, caso operativo perfetto per invitate Pechino a condividere le responsabilità della sicurezza collettiva, in un altro incontro a Washington con Liu Jianchao, capo del dipartimento internazionale del Partito Comunista, che secondo alcuni succederà a Wang come ministro degli Esteri (ruolo che Wang occupa da luglio, dopo che Xi ha rimosso Qin Gang dall’incarico con accuse vaghe di corruzione e mala condotta).

Così l’Indo Mediterraneo finisce sul tavolo dell’incontro Sullivan-Wang

L’incontro in Thailandia tra Wang e Sullivan è finito sui giornali in anticipo questa volta (perché?) dimostrando come Usa e Cina intendono continuare a parlarsi (come deciso da Biden e Xi). Sul tavolo anche la destabilizzazione delle rotte marittime indo-mediterranee, su cui Washington vorrebbe coinvolgere Pechino sulle responsabilità della sicurezza collettiva

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