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Nei giorni scorsi si è assistito a un dibattito molto male impostato sugli effetti della riforma del lavoro che sta muovendo i primi passi. Male impostato, perché i dati che venivano branditi come clave dai contendenti – come previsto e spiegato su questo sito in epoca non sospetta – sono quasi del tutto privi di un ragionevole significato circa le conseguenze prodotte dalle nuove norme.

Facciamo tutti un esercizio di contenimento della faziosità e lasciamo agli econometristi il tempo per acquisire e analizzare con rigore i primi dati rilevanti: ciò che non potrà compiersi prima di qualche mese. Detto questo, però, spero di non essere tacciato di faziosità se osservo che almeno un merito, ai primi due decreti entrati in vigore, va riconosciuto: hanno cambiato l’atteggiamento degli osservatori stranieri nei nostri confronti.

I Governi francese e polacco ci studiano per imitarci; sul Wall Street Journal del 9 aprile Klaus Zimmermann, Direttore dell’Istituto per lo studio del lavoro di Bonn, indica la nostra riforma come un modello da seguire per superare il dualismo fra protetti e non protetti e rendere il mercato del lavoro più fluido, più attraente per gli investitori e più sicuro per i lavoratori.

Se poi l’aria che tira a questo riguardo cambia non soltanto oltr’Alpe e oltre Atlantico, ma anche in casa nostra, e non solo tra i giovani che tornano a cercare lavoro con più fiducia, ma anche tra chi può essere interessato ad assumerli in forme stabili e decenti, come appare dall’intervista del Sole 24 Ore del 31 marzo alla Presidente dell’Associazione Italiana dei Direttori del Personale, allora forse le premesse giuste perché i dati futuri risultino buoni ci sono davvero.

Leggi il commento nel sito di Pietro Ichino

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