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Scopro con divertito stupore che le mie malfondate intuizioni circa il legame fra andamento dell’economia e della demografia non sono così infondate, relativamente almeno agli effetti che gli andamenti demografici hanno su quello dei prezzi.

Stupore cui si aggiunge la sorpresa, quando osservo, leggendo un paper della Bis (“Can demography affect inflation and monetary policy?”), che fior di banchieri centrali iniziano a sospettare che l’aumentare della quota di popolazione anziana abbia effetti deflazionari, impattando implicitamente sul livello del prodotto.

Ma più di tutto, mi convince a leggere il paper la domanda che gli autori si fanno all’inizio: “Perché l’inflazione era alta negli anni 1960-70 e perché è bassa oggi?”, che mi sembra assolutamente interessante.

Sicché mi armo della consueta santa pazienza e inizio a compulsare le 50 pagine dello scritto, che magari non darà una risposta definitiva, ma almeno offre degli spunti di riflessioni utili al nostro discorso.

Secondo il punto di vista più comune, l’impennata dell’inflazione degli anni 60-70 fu frutto di errori commessi dalle banche centrali, che non agirono efficacemente per impedire il fenomeno.

Più di recente, alcuni banchieri centrali hanno ipotizzato che le tendenze demografiche possano avere a che fare con l’andamento dei prezzi, e persino il Fmi, prendendo spunto dall’esperienza giapponese, ha ipotizzato che il divenire anziano della popolazione spinga al ribasso i prezzi, per lo più facendo rallentare la crescita, indebolendo persino gli effetti della politica monetaria.

Sulla scorta di queste analisi precedenti, gli autori del paper hanno condotto un’analisi su 22 economie riguardante il periodo 1955-2010 al termine della quale affermano di aver trovato “una significativa e stabile connessione fra la struttura anagrafica della popolazione e l’inflazione” o direttamente “o tramite le aspettative di inflazione”. Ciò anche di fronte al verificarsi di eventi come i due shock petroliferi, o seguendo l’andamento del tasso reale di interesse o dell’output gap, nei confronti dei quali “l’impatto demografico sembra essere complementare”.

Ancora più importante, sottolineano, è la circostanza che “il risultato non dipende da nessun periodo particolare”. La relazione fra demografia e inflazione risulta sussistente nel dopo 1980 come nel dopo 1995, e sussiste anche nei periodo straordinari, come appunto sono stati quelli degli shock petroliferi.

Secondo le stime degli autori, “la demografia pesa circa un terzo delle variazioni dell’inflazione e in gran parte per la decelerazione avvenuta dai tardi anni ’70 ai primi anni ’90”. Soprattutto, le rilevazioni hanno mostrato un pattern a U: “Una quota maggiore di persone a carico (ossia, giovani e anziani) è correlata con un più alto tasso di inflazione, mentre una quota maggiore di coorti in età lavorativa è correlata con un’inflazione più bassa”.

L’estensione dell’analisi alla politica monetaria ha permesso inoltre di arrivare a un’altra conclusione: c’è una relazione fra gli andamento demografici e la politica monetaria, anche se non appare stabile come quella individuata fra demografie e prezzi.

In particolare, prima della metà degli anni ’80 la politica monetaria “ha rinforzato ‘impatto demografico sull’inflazione: i tassi di interesse reali erano bassi proprio mentre erano alte le pressioni inflazionarie”.

Questo pattern si è invertito dalla seconda metà degli anni ’80, quando la politica monetaria ha iniziato a mitigare gli impatti demografici, anche se non completamente. “In altre parole – spiegano – in quel periodo i tassi di interesse reali erano bassi e le pressioni demografiche inflazionarie lo erano altrettanto”.

Insomma: la demografia impatta sull’economia, in tanti modi. Ma questo in pratica che vuol dire?

“Il nostro risultao è rilevante per la teoria economica e le policy”, sottolineano i due autori. Della prima potremmo pure infischiarcene, atteso che le teorie economiche cambiano di continuo. Più interessante però l’effetto che ciò ha sulle politiche, che magari a queste teorie fanno riferimento. In particolare le politiche monetarie che si basano sulla stima dell’inflazione prevista e si orientano verso i target di riferimento.

Questi ultimi, in particolare, “potrebbero rimanere ottimali – si chiedono – se le pressioni inflazionarie sottostanti cambiano significativamente?”.

Detto in altre parole, può bastare un 2% di target se l’andamento demografico spinge verso lo zero? O se invece, aumentando gli anziani, e quindi quelli fuori dai processi produttivi, l’andamento demografico spingerà verso un’inflazione più alta?

Il problema si aggrava se si considera che i paesi hanno strutture demografiche profondamente diverse, pure se in comune hanno una quota crescente di anziani. In alcuni di questi, dove l’invecchiamento della popolazione si prevede più rapida, ci si può aspettare una maggiore spinta verso l’inflazione. Fra questi spiccano Italia, Grecia, Spagna (sempre perché piove sul bagnato) e Corea del Sud.

Chi ha orecchi intenda, diceva il filosofo.

Gli effetti deflazionari della terza età

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