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La necessità di una più equa rappresentanza di genere e pari opportunità per le donne all’interno di istituzioni pubbliche e aziende private è ormai riconosciuta, almeno a dar peso alle quotidiane dichiarazioni di governi e illustri rappresentanti del mondo economico e finanziario. Faticosamente, a costo di aspre battaglie e molte ironie, si è affermata la consapevolezza del valore economico e potenziale delle professionalità e competenze femminili. Privarsi di quest’apporto – oltre che miope – è economicamente ingiustificato, traducendosi in costi inaccettabili per società minacciate da una crescita asfittica e dell’insostenibilità dei propri sistemi di welfare. Non si contano ormai più appelli e proposte in materia, raccolte dalla stampa internazionale, o azioni intraprese dai governi delle più disparate aree del mondo. Progressivamente, si erodono una cultura e una mentalità radicate e strutturate persino nel linguaggio. Lentamente, si smantellano rovinosamente preconcetti fino a pochi anni fa mai messi in discussione.

Così, ad esempio, il 12 marzo, in un’intervista rilasciata alla rivista Fortune, John Chambers, CEO del colosso dell’ICT Cisco, annunciava l’avvio di una campagna volta a trasformare “radicalmente” la cultura aziendale, al fine di attrarre e valorizzare i migliori talenti femminili. Immagino suscitando qualche reazione ironica, Chambers ha invitato i top manager di Cisco a leggere e trarre ispirazione per azioni concrete da “Lean In”, il libro di Sheryl Sandberg, Chief Operating Officer di Facebook, e una delle pochissime donne di potere nel mondo della tecnologia. Già, perché pari opportunità significa per le donne accedere al potere sostanziale, non accontentandosi più di ruoli “ornamentali”. Con tre donne nel board e cinque nel comitato operativo, CISCO è già un’eccezione tra i giganti del settore. D’altro canto, nota Chambers, soltanto offrendo esempi concreti di percorsi di carriera e “modelli” alle giovani donne che entrano in azienda, sarà possibile attivare cambiamenti effettivi sui processi e la ripartizione del potere. Allo stesso tempo Chambers sottolinea che nessuna delle manager menzionate è stata nominata in quanto donna, ma esclusivamente sulla base delle proprie qualificazioni. Un altro mito, quello della mancanza di adeguate professionalità ed esperienza tra le donne, che faticosamente comincia a sgretolarsi di fronte ad innegabili successi e all’affermazione individuale di personalità femminili di eccezionale valore.

Discutendo di questi temi con mentori e amici, alcuni dei quali hanno ricoperto e ricoprono ruoli di prestigio in numerose organizzazioni, non nego di trovarmi a volte ad ascoltare argomenti già ampiamente superati. Soprattutto questo accade quando si affronta la questione delle “quote di genere” e degli strumenti legislativi ormai adottati in numerosi paesi, e in discussione a livello europeo. Ampia resistenza – e un sonoro vociare lamentoso– ha sollevato d’altronde anche la legge sulle quote nei CDA delle aziende quotate, licenziata dal parlamento tedesco pochi giorni fa. Una norma di impatto peraltro limitato. Sono infatti solo 108 le imprese interessate, e non sono previste sanzioni per quelle inadempienti. Semplicemente, se non nomineranno donne, le aziende dovranno lasciare vacanti i seggi corrispondenti. Questa la situazione. Chiaro il tema, già ampiamente noto e discusso. Non avrei ritenuto – forse – di contribuire con pensieri miei, non fosse stato per un fatto anomalo e francamente ridicolo avvenuto nei giorni passati. Un episodio cui certa stampa italiana ha dato ampio rilievo, senza nemmeno procedere ad una sia pur superficiale verifica. Tristemente, io ne ho avuto notizia attraverso un articolo pubblicato dal britannico Guardian il 10 marzo.

Con il titolo “School plan to change gender stereotypes causes storm in Italy”, il giornale dava conto delle scomposte reazioni di un manipolo di valorosi politici, opinionisti e persone non informate dei fatti (tra gli altri, Libero, Il Giornale, Il Piccolo di Trieste, Matteo Salvini.. dalla Germania, mi dispiace, non ho potuto seguirvi tutti) all’adozione – promossa e sostenuta dal Comune di Trieste – da parte delle scuole della città giuliana, di un gioco per bambini. Il “Gioco del rispetto” è destinato a mettere in discussione i pregiudizi acquisiti dai bambini su quali siano ruoli e comportamenti tipicamente femminile e maschili. Si tratta, per farla semplice, di mostrare come una donna possa fare l’astronauta e la meccanica, mentre un uomo si possa dedicare alla cucina o al cucito. Insomma, di una roba che – se non sei in Afghanistan – dovrebbe essere abbastanza lapalissiana. Tuttavia, leggo con una certa incredulità, taluni – compresi personalità della politica nazionale, e qui includo per non discriminare anche le illustri esponenti femminili di partiti quali La Lega Nord – hanno gridato allo scandalo e accusato il gioco di cosette ignominose tipo “sessualizzazione precoce” degli infanti, con accenni di – immagino – pulsioni pedofile, nonché di volere imporre un’ideologia del superamento della differenza sessuale in senso fondamentale, per fare dei bambini, intuisco, dei “perversi polimorfi” pansessuali. Non mi pare ovviamente il caso di commentare nel merito.

Se tanto mi dà tanto, suggeriremo presto in contro tendenza mondiale il ritorno allo studio dell’economia domestica come materia base del curriculum scolastico delle bambine. Tanto che importa eventualmente far di conto o saper programmare?.

Quote rosa e il "Gioco del rispetto" a Trieste. Se dobbiamo sempre farci ridere dietro

La necessità di una più equa rappresentanza di genere e pari opportunità per le donne all’interno di istituzioni pubbliche e aziende private è ormai riconosciuta, almeno a dar peso alle quotidiane dichiarazioni di governi e illustri rappresentanti del mondo economico e finanziario. Faticosamente, a costo di aspre battaglie e molte ironie, si è affermata la consapevolezza del valore economico e…

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