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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori, pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Sono gli alleati più alleati del mondo. Li rendono tali non soltanto gli interessi comuni, ma anche i fili di una comunanza ideologica che ha perfino aspetti religiosi. Quando si viene al dunque in una crisi internazionale, sono sempre dalla stessa parte, la Superpotenza e uno degli Stati dalle dimensioni molto più ridotte. Sono gli Stati Uniti e Israele. Ma adesso stanno litigando. Il linguaggio che si sono scambiati i due governi per alcuni giorni è stato il più aspro da quando lo Stato ebraico esiste. Le parole e i silenzi. La innegabile interferenza di Benjamin Netanyahu nella politica americana al servizio della sua campagna elettorale che si conclude a Gerusalemme, i silenzi di Barack Obama e dei suoi collaboratori, eloquenti quanto le più aspre parole.

Non si era mai visto prima, un primo ministro di Israele in visita a Washington senza essere stato invitato dal presidente americano, in una forma però che non si può definire privata perché è avvenuta su invito del partito di opposizione, il repubblicano, che sta conducendo una offensiva «totale» contro Obama e il Partito democratico. L’ospite, ben conosciuto negli ambienti politici Usa anche come rapporti personali, era abituato ad accoglienze al di sopra delle parti; stavolta è stato applaudito dagli uni e confinato nell’indifferenza apparente degli altri, in realtà dal loro risentimento. Il Partito repubblicano Usa è sceso in campo per difendere la presidenza del Likud a Gerusalemme e ricevere in cambio un appoggio contro la Casa Bianca. Un comizio praticamente elettorale, al servizio di una campagna elettorale dieci mila chilometri più in là.

Ma le forme non sono tutto. Lo scontro tra governi alleati da sempre verte su un contrasto radicale di valutazioni. Investe una crisi triplice, nella forma e nella sostanza. La prima crisi riguarda il futuro della Palestina; la seconda l’insieme del Medio Oriente; la terza ha dimensioni mondiali. La prima crisi è regionale, la seconda esistenziale, la terza planetaria. La prima richiederebbe una visione comune almeno dei pericoli e, quindi, un’azione diplomatica a scadenza media o breve, e riguarda la Palestina nel suo complesso. Essa si aprì con la nascita stessa di Israele, con una guerra e la vittoria di Israele e con la necessità di dare uno status ai soccombenti. La soluzione che più o meno tutti dicono di volere si chiama «due Stati», cioè la costituzione di un’entità politica «araba» nel territorio.

Se ne parla, ma non ci si arriva perché questa esigenza contrasta con il cardine della seconda crisi: quella di sicurezza per lo Stato ebraico, che richiede non soltanto una frontiera e una formula condivisa dai due diretti belligeranti, ma un contesto di stabilità. Israele ha dimostrato più volte di avere una netta superiorità militare nei confronti dei vicini, ma potrebbe essere vulnerabile a gesti ostili dai margini di quell’area, oggi in primo luogo dalle ambizioni nucleari dell’Iran. Non ci sono questioni territoriali fra Gerusalemme e Teheran, ma il possesso della bomba H darebbe agli iraniani una posizione di predominio nel mondo arabo-musulmano e renderebbe, col tempo, incerto l’esito di una guerra.

Di qui la formula americana: un Iran «nucleare» tranne che per la «bomba». Gli eredi di Khomeini sembrano ora disposti ad accettarla, ma Israele, o perlomeno i falchi che oggi vi sono al potere, non depongono la loro diffidenza e intransigenza, soprattutto nell’imminenza di un accordo fra Teheran e Washington cui Obama, a quanto pare, aspira, soprattutto dopo che nel Medio Oriente si è levato un nuovo incubo: quello che ha per simbolo il Califfato e per contenuto una «guerra santa» dell’estremismo sunnita contro i fedeli di ogni altra religione, dagli ebrei ai cristiani, ai musulmani come gli sciiti dell’Iran.

La Casa Bianca si mostra convinta che per dissolvere questo spettro sia pensabile, e anzi necessaria, una collaborazione fra tutti coloro che ne sono minacciati, inclusa la teocrazia più tradizionale insediata a Teheran. Una collaborazione militare che pare già in corso, sia pure sotto formule intermedie: attraverso egiziani o iracheni armati dall’Iran. E qui si riaccende un antico incubo di Gerusalemme, l’erosione dei suoi margini di sicurezza. I Netanyahu temono di essere messi in secondo piano in questa nuova situazione. Obama e i suoi collaboratori intravvedono l’eventualità che la guerra mondiale di difesa contro i tagliagole dell’Isis crei una situazione in cui questi ultimi potrebbero essere considerati da Israele come il male minore.

Che la crisi mondiale divenga incompatibile con la sicurezza assoluta dello Stato ebraico: un’ansia che va rispettata, ma che è arduo combinare con le opportunità e le necessità di una Superpotenza che ha il diritto e il dovere di tenere d’occhio il mondo. Il contrasto è antico, contemporaneo alla Grande amicizia e ogni tanto riemerge. Mai con la franchezza pericolosa di questi giorni.

Che cosa divide davvero Usa e Israele

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