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Sicché un venerdì 13 come un altro l’Istat rivela, con grande sollievo nazionale, che la crescita del Pil sul trimestre precedente non c’è stata. Zero.

Strano a dirsi, l’azzeramento della crescita, lungi dallo spaventare, rassicura quasi, essendo terminata – si affrettano a scrivere i tanti commentatori – la decrescita.

Che poi a ben vedere non è così, visto che l’azzeramento del quarto trimestre completa comunque un 2014 con un segno negativo dello 0,4%, persino peggiore di quello -0,3% che il governo aveva vaticinato pochi mesi fa, e che comunque rispetto al quarto trimestre 2013 il calo è stato dello 0,3%.

L’indomani di questo venerdì 13, il titolo che mi suggestiona di più è quello del Sole 24 ore, che in prima pagina nazionale dice che “il Pil dell’Italia tiene” e in un sommario sottolinea come “L’economia italiana risale a zero”. Uno straordinario spiazzamento retorico. Il Pil che tiene risalendo a zero.

Mentre plaudo al titolista, che ha evidentemente a cuore il buonumore nazionale, il maledetto ficcanaso che insiste dentro di me mi dice due cose: la prima è che i margini dell’errore statistico, che gli istituti nazionali si guardano bene dall’evidenziare nelle loro note, oscilla su valori che somigliano agli andamenti del Pil italiano, ossia più o meno uno 0,1-0,3%.

La seconda cosa è che conviene andarsi a vedere le voci che compongono questo miracoloso ritorno a zero.

Sicché corro a leggere per intero la nota Istat sul prodotto quando, improvvisamente, mi sovviene che prima di questo venerdì 13, così fortunato per l’economia italiana, c’è stato un giovedì 12 nel quale, sempre l’Istat, ha rilasciato un’altra nota che mi sembra importante quanto quella di venerdì 13, ma che però non ha ricevuto l’onore della prima pagina del Sole 24 ore, né di altri giornali altrettanto titolati.

Mi riferisco alle statistiche sull’andamento della popolazione. La vera crescita zero del nostro paese. Per la semplice circostanza che, a differenza delle statistiche del prodotto, che ingannano per senso e sostanza, quelle sulla popolazioni si limitano a raccogliere i numeri di morti e nascite. Niente algoritmi: semplice aritmetica.

Il fatto che tali dati non abbiano dignità di prima pagina, quando anche uno studente di economia sa perfettamente quanto sia stretto il legame fra le questioni economiche e quelle demografiche, dipende da una serie di ragioni, a cominciare dal luogocomunismo del nostro dibattere politico-giornalistico, a finire dall’importanza assoluta che il Pil ha conquistato nel tempo, essendo il denominatore di ogni indice di sostenibilità dei debiti, e quindi, in sostanza del nostro buonumore.

Decido perciò di tentare un esperimento e leggere insieme le statistiche del prodotto con quelle della popolazione.

Comincio dalla prima perché neanch’io sfuggo al luogocomunismo che fa credere che un buon Pil sia la panacea dei nostri mali economici.

Qui leggo che “la variazione congiunturale è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dell’industria e di un aumento nei servizi. Dal lato della domanda, il contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) è compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. Quindi aumenta il prodotto nei servizi a scapito di agricoltura e industria, mentre la domanda estera compensa il calo di domanda nazionale.

Poi nel prospetto che sommarizza i tassi di crescita congiunturali noto che non è la prima volta che l’economia italiana “risale a zero”. Era già successo nel terzo trimestre 2013 e nel primo trimestre 2014. E poi è tornata negativa. Per la cronaca, l’ultima stima positiva del Pil è quella che risale al secondo trimestre 2011, con un +0,2%. Sempre ai confini dell’errore statistico.

Insomma, somigliamo a un motore inceppato, che tenta di mettersi in moto ma poi si spegne e che coltiva la speranza di partire perché ha nel serbatoio un po’ di benzina che arriva dall’estero. Faccio davvero fatica a comprendere come sia possibile che un paese che ha una notevole ricchezza finanziaria e patrimoniale come il nostro debba dipendere dalla domanda estera per far rialzare a zero il Pil.

Depresso, cambio argomento e volgo la mia attenzione alla nota demografica, che, se possibile mi deprime ancor di più.

Qui leggo che “regolarmente da un decennio si rileva una riduzione della popolazione di cittadinanza italiana, scesa a 55,7 milioni di residenti al 1° gennaio 2015. La perdita netta rispetto all’anno precedente è pari a 125 mila residenti”. Ciò significa che se non fossero arrivati nel frattempo cinque milioni e 73mila immigrati, non saremmo quei 60 e rotti milioni che ancora siamo, ma assai meno. E mi sovviene, mentre osservo questo dato, un vecchio grafico dell’Ocse, dove si misurava la crescita media del pil pro capite reale del paesi del gruppo fra il 2000 e il 2011 e spiccava il nostro, unico ad avere un tasso negativo dello 0,1%.

Sempre lì siamo, da un quindicennio.

Se fossi un economista mi proporrei di studiare la correlazione fra andamento demografico e (de)crescita del prodotto. Ma poiché non sono capace, mi tengo la domanda e vado avanti.

Sempre nella nota Istat leggo che “al 1° gennaio 2015 l’età media della popolazione ha raggiunto i 44,4 anni. La popolazione per grandi classi di età è così distribuita: 13,8% fino a 14 anni di età, 64,4% da 15 a 64 anni, 21,7% da 65 anni in su”.

Se fossi un economista, mi chiederei quale sia la propensione al consumo di beni agricoli e industriali, e quale invece la domanda di servizi, di una popolazione che per oltre un quinto è anziana, e quale sia la sua propensione a fare investimenti, tipo comprare una casa. Ma poiché economista non sono, mi tengo anche questa domanda e continuo a leggere.

Scopro che per la prima volta dall’Unità d’Italia le nascite sono arrivate al minimo di 509 mila e che i morti sono stati 597 mila, quattromila in meno rispetto al 2013. Il combinato disposto ha generato un aumento della speranza di vita, confermandosi l’Italia un buon Paese per la terza età.

Rimane il fatto che senza l’afflusso degli immigrati saremmo in decrescita, anche demografica. E che anche gli immigrati arrivano sempre meno: il saldo migratorio con l’estero, positivo per 493 mila unità nel 2007, è arrivato nel 2014 a 142 mila.

A ciò si aggiunga che il saldo migratorio per gli italiani risulta negativo per 65 mila unità, il 20,25% in più rispetto al 2013. Aumentano, perciò, quelli che vanno via dal Paese. E lascio alla vostra immaginazione di ipotizzare a quale classe d’età appartengano.

Noto infine che, anche al lordo dell’effetto positivo dell’immigrazione, “nel 2014 la popolazione residente consegue un incremento demografico dello 0,4 per mille, il più basso degli ultimi dieci anni. In termini assoluti l’incremento è pari ad appena 26 mila unità, il che determina una popolazione totale di 60 milioni 808 mila residenti al 1° gennaio 2015″.

L’incremento dello 0,4 per mille della popolazione mi fa pensare immediatamente alla risalita a zero del Pil del quarto trimestre. E allora capisco che il Pil fotografa ciò che l’Italia è diventata in questi ultimi dieci e passa anni: un Paese che non vuole più crescere, ma solo invecchiare in pace.

L’Italia è a crescita zero.

Il problema è che le piace.

L’Italia a crescita zero

Sicché un venerdì 13 come un altro l’Istat rivela, con grande sollievo nazionale, che la crescita del Pil sul trimestre precedente non c’è stata. Zero. Strano a dirsi, l’azzeramento della crescita, lungi dallo spaventare, rassicura quasi, essendo terminata – si affrettano a scrivere i tanti commentatori – la decrescita. Che poi a ben vedere non è così, visto che l’azzeramento…

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