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È giusto che una volta superata una certa dimensione finanziaria le banche popolari vengano obbligate a trasformarsi in società per azioni? È l’interrogativo che ha animato il convegno “La riforma delle banche popolari” organizzato dalla “Fondazione Gerardo Capriglione” all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma.

Fine di un’epoca?

A rendere attuale l’iniziativa è il provvedimento del governo che tra analisi critiche, interrogativi e incognite punta a rivoluzionare un mondo fortemente radicato nel tessuto economico nazionale.

Un decreto legge, rileva il professore di Diritto pubblico dell’economia alla Luiss Marco Sepe, con cui l’esecutivo afferma che il modello cooperativo – rilevante e diffuso in Nord America e in Europa – non è più utile e idoneo per le banche più importanti. E che nel terreno creditizio non ha la stessa dignità del modello proprietario della società per azioni.

Tutto ciò – osserva lo studioso – a prescindere dall’effettiva concentrazione in un territorio circoscritto della raccolta di capitale e dell’erogazione di risorse per famiglie e imprese, dal carattere mutualistico o meno, dalla presenza di scandali legati alla gestione del management.

L’europeizzazione delle banche popolari

Il testo approvato il 16 gennaio dal Consiglio dei Ministri ha trovato l’adesione del presidente della Consob Giuseppe Vegas, dell’Antitrust presieduta da Giovanni Pitruzzella e del direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi. A riprova di un forcing esercitato dall’Istituto di Via Nazionale fin dai tempi di Mario Draghi e in contraddizione con la strategia portata avanti per anni da Antonio Fazio.

Condivisione manifestata dal giurista Francesco Capriglione, per il quale la realtà creditizia italiana caratterizzata storicamente da un grande pluralismo proprietario deve adeguarsi al modello di gruppi finanziari medio-grandi prefigurato dalle nuove regole di vigilanza bancaria europea.

“Palazzo Chigi doveva avere più coraggio”

Anche perché, rimarca lo studioso, le banche popolari più rilevanti si sono allontanate dall’originaria finalità mutualistico-cooperativa territoriale: “E dunque perché mantenere istituti come il ‘voto capitario’ che sgancia il management dall’orientamento maggioritario dei partecipanti e lo accorpa a un gruppo stabile di soci protesi all’auto-conservazione, limitando l’efficacia del ricorso al mercato di capitali esterni?”

A suo giudizio Palazzo Chigi avrebbe dovuto anzi mostrare più coraggio. Cogliendo l’opportunità legislativa per rivedere l’intero assetto della cooperazione creditizia, comprese le banche di credito cooperativo con elevato capitale.

“Perché imporre la metamorfosi alle Popolari?”

Argomentazioni criticate da Marina Brogi, docente di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università “La Sapienza” di Roma. La quale non è affatto convinta che promuovendo aggregazioni forzate si giunga a un miglioramento dell’efficienza della realtà creditizia.

Le banche, spiega, sono da giudicare in base alla loro capacità di perdurare nel tempo. “Ma allora per quale ragione una banca popolare che parte con dimensioni ridotte, riesce a rafforzarsi creando valore e assumendo la responsabilità per le eventuali perdite, è costretta a trasformarsi in società per azioni?”

“L’assetto proprietario resterà frammentato”

Contestando che dal punto di vista patrimoniale e nell’erogazione di risorse alla clientela queste ultime stiano messe molto meglio rispetto alle Popolari – “come rivelano i risultati degli stress test della Banca centrale europea” – la studiosa ritiene che il problema della staticità dei vertici non è avvertito esclusivamente nel mondo delle banche popolari.

E pensa che l’assetto proprietario delle prime 10 banche popolari “resterà più che mai frammentato e instabile anziché essere aggregato attorno a robusti gruppi di controllo, soprattutto in vista di eventuali percorsi di fusione con altri istituti creditizi”.

Le foto del seminario

“Era meglio limitare la riforma ai 7 istituti quotati”

Radicalmente antitetico il ragionamenti di Mirella Pellegrini, professoressa di Diritto dei mercati finanziari all’Università Luiss: “Già da tempo in molti denunciavano l’annacquamento delle banche popolari e di credito cooperativo rispetto alla missione originaria. Garantita tramite una regolamentazione democratica che impedisce le scalate esterne tramite l’egualitarismo del principio ‘una testa-un voto’. E che frena la rappresentatività piena di tutti i detentori di capitale cristallizzando l’egemonia di pochi soci e impedendo il ricambio del management”.

Concorde con la ratio del decreto legge, la studiosa avrebbe preferito un processo per piccoli passi per rendere accettabile la riforma: “Sarebbe stato più semplice e corretto assoggettare alla trasformazione di regime giuridico esclusivamente le 7 banche quotate in Borsa, realmente in contrapposizione con le primigenie finalità mutualistiche”.

Mentre per tutte le Popolari che non compieranno tale scelta e vorranno conservare un legame privilegiato con le esigenze produttive della comunità di riferimento “è positivo mantenere le vecchie regole a partire compresi i limiti al possesso di capitale. A patto che esse non si traducano come spesso avviene in un ‘egualitarismo dell’astensione’ nelle assemblee”.

“La condanna a restare piccole”

A riflettere sulle prospettive delle banche popolari che resteranno al di sotto della soglia di 8 miliardi di attivo è Vincenzo Troiano, docente di materie giuridiche e aziendali nell’Università di Perugia: “Per tali realtà verrà prefigurato un nuovo modello di governance volto a rendere più forte l’interesse a investire, a favorire il rafforzamento patrimoniale, ad ancorare la scelta degli amministratori alla maggioranza dei soci finanziatori, a promuovere la partecipazione alla vita assembleare”.

Tuttavia, ricorda lo studioso, il rifiuto di procedere alla trasformazione in società per azioni o di rientrare al di sotto del tetto di 8 miliardi può provocare “interventi di rigore” della Banca d’Italia. Che possono spaziare dal divieto di operazioni alla liquidazione.

E inoltre “il limite reddituale fissato dal governo potrebbe scoraggiare tanti investitori pronti a impiegare risorse nelle banche cooperative, credendo nella loro vocazione. Potrebbe costituire un freno al pieno sviluppo e rafforzamento finanziario di tali istituti fermamente intenzionati a mantenere la loro fisionomia. È una condanna a restare piccoli”.

“Il governo teme la fuga dei soci?”

Altro interrogativo privo di risposte persuasive è messo in luce da Francesco Di Ciommo, docente di Diritto privato presso l’Università Luiss.

Il testo del governo prevede che il diritto al rimborso delle azioni nell’eventualità di recesso per i soci che rifiutano di partecipare alla trasformazione delle Popolari in società per azioni venga limitato: “Limitato dalla Banca d’Italia per assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza primario della banca”.

La priorità dunque è il rafforzamento patrimoniale degli istituti creditizi. Mentre appare molto affievolita l’elementare garanzia della proprietà societaria.

“Perché – chiede lo studioso – se il governo è convinto che la trasformazione delle Popolari in società per azioni porterà più capitali e un aumento del valore delle partecipazioni, nutre il timore della fuga dei soci? E cosa prevederà Via Nazionale con una delega tanto ampia e invasiva? Le nuove norme in materia potrebbero coinvolgere tutti gli istituti creditizi italiani?”

Il pregio della riforma

Una delle realtà toccate dal provvedimento del governo è la Banca Popolare di Bari, il cui direttore Vincenzo De Bustis ricorda come il comportamento gestionale corretto o scorretto di un istituto di credito non sia legato al regime giuridico. “Fattore decisivo sono le persone. Ma è giusto che vi sia una censura gestionale preventiva”.

L’elemento cruciale cui guarderanno d’ora in poi la vigilanza bancaria italiana e europea, rileva il manager, sarà il modello operativo scelto per promuovere un vero e proprio business industriale.

“Il governo vuole accelerare l’adeguamento e la modernizzazione della strategia industriale perché vengano creati redditività e valore delle banche. Che in tal modo, come tutte le imprese commerciali, diventeranno contendibili con un aumento del loro titolo e una maggiore facilità di reperire risorse nel mercato dei capitali”.

“Gli investitori esteri vorranno contare”

Le liquidità rilevanti ci sono, soprattutto al di fuori dei confini nazionali. All’estero, spiega il banchiere De Bustis, esistono gruppi pronti a rilevare il controllo delle banche popolari con 500 milioni o 1 miliardo di euro: “A patto che poi comandino loro”. Ecco perché a suo avviso è necessario “conservare con tutto il tempo necessario il valore del patto stipulato tra i soci una volta avvenuta la trasformazione in società per azioni”.

Una strada segnata

La scelta che si prospetta al nostro paese, conclude il professore di Diritto pubblico dell’economia alla Luiss Giancarlo Montedoro, è limpida e obbligata: “Puntare sulla cooperazione economica anche nel terreno creditizio come schema organizzativo di un capitalismo sociale all’altezza dei mercati globali e dell’innovazione”.

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