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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Non è la prima volta che lo fanno: è la prima volta che lo dicono. Americani e iraniani sono di fatto alleati nella guerra contro i terroristi islamisti dell’Isis. Non hanno firmato alcun trattato di alleanza, continuano a guardarsi ufficialmente in cagnesco, ma hanno lo stesso nemico, gli stessi alleati e soprattutto, più concretamente, bombardano gli stessi obiettivi.

Accadeva da qualche tempo, soprattutto perché era inevitabile, ma almeno uno dei due partner provava un forte imbarazzo ad ammetterlo: l’America, naturalmente. I cui rapporti con Teheran sono da anni tra i più tesi sullo scacchiere politico mondiale, superati recentemente e solo a tratti dalle rinnovate frizioni con la Russia. L’Iran non prova invece eguale disagio ed è stato il primo a dare l’annuncio, provocando dopo poco più di ventiquattro ore la conferma da Washington.

Il terreno dove questa collaborazione è per la prima volta ufficiale è sul «fronte» iracheno, una zona orientale più vicina alla frontiera iraniana, un’area in cui i califfisti si erano insediati da tempo, ma che ora li vede martellati dall’aria dei caccia che battono diversa e opposta bandiera, ma sono oltretutto di modelli molto simili. Cercano, i piloti di questi jet, di non incontrarsi e di picchiare ciascuno la propria «fetta» di obiettivo, ma in realtà operazioni coordinate sono in corso anche in altre aree del fronte molto esteso creato dall’insurrezione degli estremisti. Soprattutto in Siria, dove la situazione è ancora più complicata per lo «stato di inimicizia» fra gli Stati Uniti e quasi tutti i loro alleati europei e il regime di Damasco, da tre anni scosso da una offensiva mirata a cacciare il presidente Assad con l’appoggio diplomatico, logistico e in qualche caso armato dell’Occidente.

Preso nella morsa, il regime è stato sul punto di cadere, se in suo soccorso non fossero volati proprio gli iraniani attraverso una milizia che nutrono e controllano, gli hezbollah. In altre zone dell’Iraq, Teheran ha mandato invece le sue forze paramilitari, Al Quds, una sorta di pretoriani di Assad di forte motivazione sciita. Gli iraniani hanno inoltre fornito armi all’esercito del Libano, minacciato a sua volta dall’Isis, e appoggiano i ribelli nello Yemen contro un regime integralista. Pochi giorni fa l’ambasciata iraniana nella capitale Sana’a è stata assaltata da terroristi. Uno sviluppo graduale, tenuto il più possibile coperto, ma che non poteva non venire alla luce. Con la massima discrezione possibile: per esempio, in Iraq, i contatti vengono tenuti attraverso ufficiali di collegamento iracheni, di modo che non avvengano veri e propri incontri per la pianificazione comune fra Washington e Teheran.

A spingere perché questi sviluppi diventassero pubblici è stato soprattutto il fragile governo di Bagdad, fin dal giugno scorso, allorché le truppe del Califfo presero d’assalto Mossul e minacciarono di marciare su Bagdad. Si sa che la principale conseguenza della guerra lanciata nel 2003 da George W. Bush contro Saddam Hussein ha avuto per conseguenza il passaggio dei poteri in Iraq dai sunniti agli sciiti, la fazione islamica più vicina all’Iran. Gli iraniani hanno prestato inoltre il più sollecito aiuto militare ai curdi, la cui recente autonomia è così direttamente minacciata dall’Isis, contro cui si sono levati, in forme varie e non sempre concordi, anche gli Stati Uniti e la Turchia.

Quella nel Medio Oriente è una guerra semicontinentale, abbastanza simile, in piccolo, alle guerre europee, in particolare la prima di cui si «celebra» il centenario e che nacque in una direzione geografica verso il Medio Oriente, che ne costituì uno dei fronti. Cent’anni dopo la scala militare è ovviamente molto inferiore, ma la locazione strategica e le connessioni politiche e anche economiche rendono di fatto impossibile la piena neutralità degli altri Stati. Il nemico del nemico non diventerà amico, ma almeno meno nemico, soprattutto quando i conflitti di interesse bilaterali vengono a contrastare con strategie più ampie e più urgenti.

Il caso dell’America e dell’Iran è esemplare. I due paesi non si sono mai mossi guerra, ma i loro rapporti erano già incrinati dall’intervento occidentale per rovesciare il regime semidemocratico di Mossadeq, che nell’immediato secondo dopoguerra minacciava di nazionalizzare le vaste riserve di petrolio di proprietà soprattutto britannica. Più tardi la rivoluzione contro lo Scià portò al potere gli ayatollah, nemici giurati dell’Occidente, attraverso anche un gesto senza precedenti come la cattura e la lunga prigionia dei diplomatici americani a Teheran.

Poi spuntò la prospettiva dell’arma nucleare iraniana, per bloccare la quale l’America impose rappresaglie e sanzioni, in cui solo di recente si è aperto qualche spiraglio di trattative di cui però, ancora pochi giorni fa, si è dovuto constatare il fallimento. Infine, ma non in fondo, c’è Israele, che si sente minacciata più dall’Iran che da qualsiasi vicino arabo, che ha minacciato rappresaglie preventive unilaterali per impedire la costruzione delle atomiche di Teheran e che è in pessimi rapporti con la Siria anche perché la Siria, sciita come l’Iran, ne è apertamente appoggiata. E che addirittura, se si sentirà costretta a scegliere fra nemici, non considera il Califfato Isis come la minaccia principale ma come un male relativamente minore. Sono soprattutto le divergenze su questo punto che incrinano da qualche tempo le relazioni usualmente strettissime fra Gerusalemme e Washington.

Le convergenze parallele tra Usa e Iran in Medio Oriente

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