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Premessa– Questa analisi nasce dal cercare di comprendere il timing (perché “ora”)  e la eventuale “novità” della critica, proveniente da Jack Lew, attuale segretario del treasury USA, circa l’irresolutezza dell’area euro nell’intraprendere politiche che la conducano al di fuori della stagnazione (per noi italiani, recessione, quale confermata dall’Istat al -03% per il 2014).

1- Da un articolo di Maurizio Sgroi su formiche.net, riportiamo un interessante commento delle analisi sulla “crescita” fatte dalla stessa Commissione UE, in uno studio del 31 ottobre 2014.

Sgroi focalizza un eloquente grafico della Commissione, relativo alla crescita comparata USA- area UEM- area UE “non euro”, tra il 2° trimestre 2009 e il 2° 2014, cioè riferito a dati statistici da registrare e non a previsioni (che la Commissione sbaglia regolarmente).

Ecco cosa emerge dall’analisi comparata della Commissione:

“…calcola il progresso del prodotto negli Usa, nell’eurozona e nell’Europa senza euro dal terzo trimestre del 2009 al secondo quarto del 2014, isolandone le diverse componenti.

La prima cosa che salta all’occhio è la grande differenza di risultato. Mentre gli Usa sono cresciuti nel periodo considerato dell’11,4% e l’Europa fuori dall’euro dell’8,6%, l’euro area è cresciuta appena del 3,5%

Ma ancora più interessante è osservare il contributo delle varie componenti.

Negli Stati Uniti quasi otto degli 11.4 punti di crescita sono arrivati dai consumi privati, altri due-tre punti sono arrivati dagli investimenti e altre componenti hanno fatto il resto. Negativo invece, per un paio di punti, il contributo del consumo del governo e dell’export netto.

Nell’eurozona i 3,5 punti di crescita sono quasi interamente da attribuirsi all’export netto, con un piccolo contributo delle altre componenti e un contributo negativo degli investimenti

In pratica la (poca) crescita che l’eurozona ha spuntato in questi anni tremendi è dovuta alla sua politica sostanzialmente mercantilista, che però ha finito con l’affossare il prodotto.

Nell’Europa fuori dall’euro si osserva che la crescita del prodotto ha interessato tutte le componenti del Pil, con una larga preponderanza del consumo privato, più o meno la metà.

Se facciamo uno zoom e osserviamo lo stesso grafico concentrandolo nel periodo fra il secondo quarto del 2013 e il secondo quarto del 2014, vediamo che il pattern cambia poco

L’eurozona è cresciuta meno delle altre due aree, 1% a fronte del 2,9 americano e del 3,2 Europa extra euro, ma soprattutto è crollato il contributo dell’export netto alla crescita, forse perché nel frattempo la domanda dall’estero dell’area è diminuita. Di nuovo c’è solo che il contributo degli investimenti è diventato positivo, anche se minimamente. E ciò basta a spiegare perché il nuovo mantra delle autorità europee sia che bisogna investire.”

2- Descritta questa situazione, va anzitutto sottolineato come FUORI DALL’EURO, gli Stati UE, coi loro modelli costituzionali del welfare, reggano benissimo il confronto con gli USA.

Ma, per la nostra sorte di paese UEM senza altre speranze o alternative, vediamo cosa dice Jack Lew, citato all’inizio, col commento del Sole24 ore, più sopra linkato:

«Il mondo – ha accusato Lew – conta sull’economia americana per trainare la ripresa globale. Ma l’economia internazionale non può prosperare solo contando sul fatto che gli Stati Uniti sono gli importatori di prima e ultima istanza, né può sperare che la nostra crescita basti a compensare la debole crescita nelle altre grandi economie mondiali».

La forza relativa degli Stati Uniti rispetto ai concorrenti sta avendo un impatto sui cambi, con il dollaro che si sta apprezzando sull’euro e sulle principali valute dei Paesi emergenti. Anche questo non piace al Governo americano, che teme una frenata delle esportazioni. Anche la caduta del prezzo del petrolio in prospettiva può creare problemi alla fiorente industria dello shale oil, la cui ascesa sta coronando il sogno americano dell’indipendenza energetica e in prospettiva può farne un esportatore netto.

La ricetta suggerita da Lew è un mix di politiche monetarie, fiscali e di riforme strutturali per rendere più competitive le economie. 

A questo proposito, il ministro americano ha osservato come anche il Giappone abbia rallentato gli sforzi di cambiamento. Delle tre frecce di Abe (monetaria, fiscale e riforme) «le prime due – ha detto Lew – hanno contribuito a una crescita più forte nel 2013, ma quest’anno il Governo ha fatto passi indietro sul fronte fiscale (con l’aumento dell’Iva, ndr) e la terza freccia non è stata attuata pienamente».

Nessun riferimento esplicito alla Germania, ma è noto che la politica del Governo Merkel, fatto di indebitamento a zero e di un ampio surplus commerciale con l’estero, non soddisfa Washington. Il timido piano da 10 miliardi di euro di investimenti pubblici annunciato dal ministro Schaeuble a partire dal 2016 (!) è evidentemente troppo poco per gli Usa.”

3- Con dati tratti da qui, (fonte: dipartimento del commercio USA), possiamo trovare la conferma dell’inquietudine di Lew, ma anche del tentativo USA di correggere, con certe specifiche strategie, gli squilibri delle proprie partite correnti:

grafico1 grafico2

Dal picco di contrazione dei consumi-importazioni dovuto alla crisi (praticamente il metodo “Monti”, solo non deliberatmente adottato), si è avuto un rebound negativo e poi un lento miglioramento “medio” che ha puntato sulla moderata ma costante crescita nel settore (esportativo) dei servizi e uno sforzo evidente, dal 2011, nella partita “beni”, che, però, ci ritroviamo peggiorata a cavallo del 2013-2014, in evidente concomitanza con le politiche di deprezzamento dell’euro perseguite, – e molto sbandierate-, quantomeno sul piano delle aspettative, dalla BCE.

Sostanzialmente, la ripresa USA è dovuta ai consumi e ciò ha corretto, in parte la disoccupazione, sapendo cioè che non si tratta di occupazione “buona“, ma dovendo, piuttosto, attribuirsi la sopravvalutata discesa del tasso dei disoccupati  ad effetti tutto sommato modesti di una enorme liquidità immessa dalle politiche monetarie, e non anche a politiche fiscali realmente espansive:

5- Questo ha portato però, nel “dualismo” del mercato USA – che certo non è risolto con la flessibilità, anzi è il contrario- ad un altrettanto modesto decremento, se non addirittura ad un aumento, della “vera” disoccupazione-sottoccupazione (v.linea blu):

grafico3

Tant’è che questi sono gli andamenti delle “wage-share” su PIL: quella USA non risulta neppure migliore di quella dell’area UEM, cosa che dimostra che, i consumi riprendono perchè ci sono tanti redditi piccoli-piccoli, ad alta propensione a…consumare, essenzialmente indebitandosi, ma senza una distribuzione sociale della crescita che abbia corretto minimamente le note sperequazioni crescenti. Queste ultime ostacolano, negli stessi USA, sia la creazione di un adeguato livello di risparmio-investimenti, sia, ancor peggio, la stessa stabilità finanziaria (essendoci troppi debitori con troppo poco flusso di reddito per stare al sicuro sui prodotti derivati che “nascondono” tale debito):

grafico4

6- Ora, poi, col tapering, – ovvero fine del QE e l’inizio di una, per ora, incerta prospettiva di aumento dei tassi di interesse (che potrebbe verificarsi blandamente, id est; sostegno al mercato intrecciato REPO dei derivati, tra USA-UE)-, la situazione del cambio €-$ potrebbe peggiorare, con ulteriore deprezzamento del primo (o apprezzamento del secondo…).

Non solo, ma abbiamo visto che la cuccagna mercantilista della crescita UEM (crescita per modo di dire), per via dell’attivo CAB, starebbe agli sgoccioli, perchè le altre aree hanno i loro problemi e, finito il QE, devono comunque compensare la fuga di capitali.

Insomma, il mercantilismo starebbe alle sue ultime batute – anche perchè la ripresa degli investimenti in area UEM, non appena registrata rischia di abortire ed è comunque largamente insufficiente, a dimostrazione che, senza investimenti, la compressione salariale non è una politica lungimirante, accoppiandosi a una distruttiva disoccupazione.

7- Persino per la Germania i tempi si fanno duri (v. la sua produzione industriale al -4% di agosto), e persino nelle stime sul CAB del FMI:

grafico5

Al netto della prospettiva del “grande botto” finanziario-speculativo, – e nonostante i proclami di Obama sulla tutela salariale del lavoro, certamente pro-domo propria in chiave internazionale-, gli USA non abbandoneranno il sopra visto mercato del lavoro e la debolezza “indebitata” e finanzariamente instabile della ripresa finora realizzata.

Ne deriva, dunque, che punteranno a rafforzarsi laddove sono già “più forti”, sul piano esportativo, cioè nel settore dei servizi: e questo spiega l’urgenza di Lew.

Infatti non possiamo non scorgere, nei toni e nei contenuti non casualmente prescelti, una nota di maggior decisione, laddove esplicita il fermo rifiuto – ecco la novità– di proseguire a servire da “importatori di ultima istanza” del resto del mondo.

E questo specialmente verso l’area UEM, che adotta paradigmi economici che escludono una decisa espandibilità degli stessi USA nei mercati €uropei dei servizi.

8- Il che ci riporta alla già segnalata “logica del TTIP ed alla vera posta in gioco sottostante, così riassunta in precedenza:

Il punto debole politico di questa strategia (UEM), però, -quello economico è talmente evidente che non ha bisogno altro che di attendere la catastrofe inevitabile-  è l’intrinseca visione mercantilista egemone germanica: che si trova a fronteggiare le diverse esigenze del “liberoscambismo” interatlantico, il quale, ex parte USA, si fonda su una diversa concezione, molto più pragmatica, della stessa piena occupazione.

Quest’ultima, nella visione sostenuta dagli USA, non è un bene sacrificabile quanto lo è la tutela sociale del lavoro.

I “consumatori”, sebbene ora miopemente “astratti” dalla concezione “fordista” (che accetta che i salari crescano con la produttività e non debbano essere sacrificati per una gigantesca e contraddittoria redistribuzione, chiamata attualmente “stabilità dei mercati finanziari”), devono pur sempre esserci e costituire una massa “matura” di potere d’acquisto, in assenza della quale neppure la liberalizzazione, per mezzo di un trattato, di ogni possibile servizio (pensioni=fondi finanziari privati e sanità=assicurazioni private) o settore di mercato (magari la stessa difesa), sortirebbe gli effetti auspicati: cioè quelli sui profitti delle imprese che si vedano aperti nuovi “liberi mercati…”

E questo quadro risulta dunque confermato: l’euro stesso può essere sacrificato se si rivela inevitabilmente dominato dalla recalcitrante Germania mercantilista, anche se la cosa potrebbe risultare difficile, ormai.

Ma la questione OMT (cioè la legittimità secondo i trattati e, ancor più, secondo il giudizio della Corte costituzionale tedesca, del “whatever it takes” di Draghi), e la conseguente imminenza della relativa sentenza della Corte europea, potrebbero costituire un provvido “tana libera tutti“, e portare dall’insostenibilità dell’euro-zona al nuovo orizzonte del rilancio liberoscambista-TTIP, di cui abbiamo parlato un anno fa, ma…dal (preteso) volto “umano” (…semplicemente un pochino meno disumano).

Cioè al rabbioso tramonto dell’euro.

Euro alla frutta e Ttip alle porte

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