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Su un tema scottante come quello della riforma fiscale, proviamo a confrontare la “narrazione” renziana con la triste cronaca dei fatti. La “narrazione” ci racconta di un governo scatenato a riconquistare opportunità di crescita per il Paese: “Basta piagnistei”, “basta lagne”, “se l’Italia si mette a correre, non ce n’è per nessuno”, e così via, in un crescendo da training autogeno a cui fa da pendant la ricorrente (e spesso fondata) accusa al Parlamento di essere il luogo delle lentezze, della palude, delle sabbie mobili, dell’affossamento di ogni buona intenzione.

Ma lasciamo la “narrazione” e passiamo invece alla realtà, anzi alla dura cronaca. Il Parlamento (relatore chi scrive, e con una inedita convergenza tra maggioranza e tutte le opposizioni, per una volta!) aveva licenziato una legge-delega fiscale coi fiocchi nel marzo del 2014, dopo pochissimi e intensissimi mesi di lavoro.

Come mai quella convergenza? Perché in una legge-delega fiscale non discuti sul “quantum” delle tasse (tema naturaliter divisivo, su cui un approccio liberale è ovviamente diverso da altri punti di vista), ma sulla “cornice”, sull’architettura del sistema fiscale. E su quell’architettura si era trovata un’intesa con non pochi tratti innovativi e pro-contribuenti. Cito in ordine sparso: la riforma del contenzioso tributario; la riforma di agevolazioni e sussidi; un catasto finalmente dalla parte dei proprietari; un importante pacchetto di semplificazioni; la revisione dell’abuso del diritto; la fine di ogni intervento fiscale retroattivo. Il tutto ponendo davvero i presupposti per un cambiamento positivo, salutato e atteso da cittadini e contribuenti.

Il governo Renzi – diciamolo – aveva avuto un bel colpo di fortuna. L’approvazione parlamentare della legge avveniva (ripeto: marzo 2014) proprio nel periodo in cui il governo giurava. Insomma, una specie di regalo fatto dal Parlamento al neonato esecutivo. Il governo non avrebbe dovuto fare altro, nei successivi dodici mesi, che varare un pacchetto di decreti attuativi, su un materiale già reso chiaro dai principi e criteri direttivi inseriti nella delega.

E invece? Sono trascorsi 11 mesi, e risulta attuato non più del 10-15% della delega. Il Sole 24 Ore di oggi usa l’aggettivo “ridicolo” per commentare l’operato del governo. In 11 mesi, la miseria di tre micro-decreti, fino al pasticcio del 24 dicembre scorso, con un quarto decreto poi ritirato, e che il governo si era ben guardato dal sottoporre preventivamente alle Commissioni per un esame preliminare, come invece si era sempre impegnato a fare.

Insomma, o inerzia o pasticci. Al punto da costringere il Parlamento a mettere in campo in queste settimane ipotesi di proroga della delega, visto l’approssimarsi della scadenza dei 12 mesi, per evitare che tutto finisse nel cestino. Dinanzi a quelle ipotesi, prima il governo le ha rifiutate sdegnosamente (anzi, prometteva per il 20 febbraio, cioè per oggi, un pacchetto-monstre di 7-8 decreti tutti in un colpo!). Poi, essendogli stato spiegato, calendario alla mano, che si era già oltre il tempo massimo (considerando il tempo fisiologico per l’esame dei decreti), l’esecutivo aveva infine accettato la proroga, e aveva assicurato per oggi il varo di tre decreti, riprendendo un ritmo minimamente ragionevole.

Ieri pomeriggio, una scarna nota ci ha invece informato del “contrordine, compagni”. Il ministro Padoan è all’estero (questa la motivazione addotta…), e quindi ecco un altro rinvio. A ciascuno il giudizio finale. Manca solo che si chieda a un esponente della minoranza (chi scrive), tra i papà della legge-delega, di fare il piacere di scrivere anche i decreti delegati…

Daniele Capezzone
Pres. Comm. Finanze Camera

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