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Come faranno i media a restare al passo con le trasformazioni vorticose dell’era digitale? Di questo, e di molto altro, si è discusso oggi a Roma in un convegno organizzato dal Centro studi americani di Roma, in collaborazione con la Luiss e l’ambasciata degli Stati Uniti.

Un evento che ha analizzato le sfide che l’economia digitale riserva al settore dell’informazione e che sotto il titolo “The state and the future of media” ha raccolto nella capitale alcuni dei nomi più importanti del giornalismo statunitense.

Tra questi David Carr che – in una conversazione con Formiche.net – ha parlato della rivoluzione dei social media nel mondo dell’informazione, delle mire di Facebook e sullo strapotere di Google dice che…

Mr. Carr, qual è lo stato di salute dei media?

Credo che siano tempi stimolanti per l’informazione. Non mi è mai piaciuto troppo essere un giornalista e lo dico con la consapevolezza di chi ha un lavoro, in un momento in cui molti miei amici non ce l’hanno, perché i media vivono una fase di violento cambiamento, con tremende conseguenze umane. Cinque anni fa, quando uno dei miei figli mi disse che voleva entrare nel business dei media e del giornalismo, risposi: “No, non farlo!”. Ora credo sia ok. A New York, c’è una grossa immissione di capitali nella produzione di contenuti e chissà a cosa porterà. Sono un grande fan di molti dei siti più nuovi. Mi piace Quartz, mi piace Gawker, trovo bello quello che sta facendo Buzzfeed. Suppongo che fare il giornalista qualche anno fa fosse molto più semplice o comodo, ma dobbiamo confrontarci con la situazione che c’è ora, non con quella che vorremmo ci fosse. E poi sono certo che fosse fantastico per alcune persone avere il monopolio dell’informazione, ma le persone hanno deciso diversamente.

I media tradizionali concorrono sempre più con i social network. Twitter, ma anche Facebook, che si appresta a lanciare un suo “giornale”. Che implicazioni ha questo ulteriore cambiamento?

Non credo che Menlo Park si lancerà separatamente nel mondo dei media. Questo gli creerebbe problemi che non vogliono. Si limiterà, almeno per ora, a proporre un nuovo feed, che non stravolgerà il panorama attuale. E poi è vero, da un lato i social media sono in competizione con i media tradizionali. Dall’altro, però, ora, in ogni secondo, diffondono contenuti raggiungendo persone che non lo avrebbero mai fatto autonomamente. Di questo beneficiano anche testate come il New York Times.

Dopo le rivelazioni di Wikileaks e di Edward Snowden, su entrambe le sponde dell’Atlantico si discute di quale sia il limite, oltre il quale, diffondere alcune informazioni potrebbe compromettere la sicurezza nazionale. Come pensa debbano comportarsi i media, in questi casi?

Il governo deve fare il suo lavoro, ma da cittadino, però, ho il diritto di sapere cosa fa. E da giornalista credo che ciò vada raccontato, come anche il NYT ha fatto, dopo le rivelazioni. Se i cronisti riportassero solo quello che le istituzioni vogliono che si sappia, i media perderebbero di affidabilità e credibilità. E trovo assolutamente folle qualsiasi provvedimento governativo volto a perseguire, come criminali, i giornalisti che fanno il loro lavoro.

In Europa si discute se spacchettare Google. Secondo Bruxelles, il colosso avrebbe troppo potere, perché, attraverso i risultati, promuoverebbe i suoi servizi, uno dei quali è Google News. Come giudica questa ipotesi? Anche per i motori di ricerca dovrebbe valere la stessa “responsabilità sociale” che si richiede ai media?

Non sono d’accordo con una divisione di Google. Da americano credo che sia il mercato a dover trovare una soluzione. Mountain View ha detto che se i consumatori europei non sono soddisfatti dei risultati, possono non usare il motore di ricerca. Credo che sia doveroso per Google collaborare, spiegare perché quel che fa non è monopolistico e sforzarsi di produrre risultati che siano il più possibile equi, utili e vantaggiosi per i cittadini. Non credo, però, che funzionerà puntare una pistola alla sua tempia e dirle “Devi fare in questo modo o i tuoi affari sono terminati”.

Perché l'Europa sbaglia a guerreggiare con Google. Parla David Carr

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