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Il Corriere della Sera del direttore da lungo tempo uscente Ferruccio de Bortoli ha alzato il tiro nella polemica con il capo dello Stato per la sua recente denuncia dell’antipolitica come fenomeno eversivo, imprudentemente alimentato, secondo il presidente della Repubblica, anche lui – ahimè – uscente, da una stampa spesso tanto autorevole, per diffusione o tradizione, quanto disinvolta.

Alla prima reazione, affidata a caldo all’editorialista Antonio Polito, giornalista a tutto tondo, è seguito oggi un “fondo” domenicale di Ernesto Galli della Loggia. Che dalla cattedra di professore universitario, più o oltre che dalle colonne di apertura del Corriere, ha fatto un po’ le pulci allo stesso Giorgio Napolitano per rinfacciare a lui, che era allora presidente della Camera, ma anche a chi era ancora più sopra di lui, la responsabilità di avere fatto nascere la cosiddetta Seconda Repubblica sull’antipolitica. O sulle sabbie mobili – anche se Galli della Loggia non ha voluto usare questa immagine impietosa – del “populismo” e del “giustizialismo”, che alimentarono l’antipolitica una ventina d’anni fa e continuano ad alimentarla adesso, sulla soglia di quella che è già stata ottimisticamente intravista come Terza Repubblica.

In particolare, Galli della Loggia ha rimproverato a Napolitano di avere troppo frettolosamente archiviato, senza il dibattito approfondito che avrebbe meritato nell’aula di Montecitorio, la drammatica lettera mandatagli il 2 settembre 1992 dal deputato socialista bresciano Sergio Moroni prima di uccidersi, sentendosi ingiustamente e sommariamente indicato come “ladro” per il coinvolgimento nelle indagini ambrosiane “Mani pulite” sul finanziamento illegale dei partiti. In quella missiva c’era, in effetti, la denuncia del “clima da progrom nei confronti della classe politica”, caratterizzato da “un processo sommario e violento” che sarebbe continuato a lungo, sino ai giorni nostri, in coincidenza o in sovrapposizioni alle varie e ricorrenti inchieste giudiziarie, compresa quella più recente sulla vera o presunta Mafia Capitale.

All’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, di cui Napolitano volle condividere tutte o le più importanti decisioni, il professore Galli della Loggia non ha invece perdonato il rifiuto opposto al decreto legge appena varato dal governo di Giuliano Amato, il 5 marzo 1993, per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Un rifiuto annunciato dopo una inopinata rivolta pubblica, davanti alle telecamere, dei magistrati della Procura di Milano contro quel provvedimento, che pure – anche se Galli della Loggia ha generosamente omesso di ricordarlo – era stato a lungo concordato fra l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso e gli uffici del Quirinale, se non con Scalfaro in persona: tanto a lungo e tanto meticolosamente concordato che l’apposita riunione del Consiglio dei Ministri  fu più volte interrotta per consentire il corso delle consultazioni con il Colle.

Tutto vero, sacrosantemente o dannatamente vero, a dimostrazione dello sconfinamento del potere giudiziario e della resa della politica al clima da giustizia sommaria su cui stava morendo la prima e nascendo la seconda Repubblica. Tutto vero, al netto di un’altra dimenticanza di Galli della Loggia: quella del rifiuto pseudocautelativo di Scalfaro, tra maggio e giugno del 1992, di conferire a Bettino Craxi l’incarico di presidente del Consiglio propostogli dai partiti dell’allora maggioranza.

La cautela, chiamiamola così, derivò dall’impressione che Scalfaro aveva ricavato, allargando inusualmente le consultazioni per la formazione del governo al capo della Procura di Milano, figlio di un suo vecchio amico e collega di toga, che l’allora segretario del Partito Socialista, già presidente del Consiglio fra il 1983 e il 1987, con lo stesso Scalfaro alla guida del Ministero dell’Interno, fosse destinato ad essere anche formalmente, e non solo mediaticamente, coinvolto nel ciclone giudiziario di Tangentopoli. Ciò in effetti avvenne, con tanto di avvisi di garanzia, ma solo sei mesi dopo, in circostanze che nessuno potrà mai onestamente dire identiche, sotto il profilo politico e persino giudiziario, a quelle che si sarebbero prodotte con Craxi di nuovo a Palazzo Chigi.

La deriva della politica, o dell’antipolitica, come si preferisce, era cominciata proprio con quel rifiuto di Scalfaro, condiviso o addirittura incoraggiato dal partito al quale apparteneva Napolitano, di conferire l’incarico di presidente del Consiglio secondo le consolidate regole o consuetudini istituzionali. A quello strappo erano destinati a seguirne progressivamente altri, compresa l’attitudine a delegare alla magistratura poteri e interventi dei vari livelli di governo: un’attitudine alla quale sembra non volere sottrarsi neppure Matteo Renzi, a dispetto dei suoi originari propositi di restituire il primato alla politica.

Non vorrei sbagliare o peccare di memoria, ma alle sabbie mobili dell’antipolitica, del populismo, del giustizialismo e di altro ancora non volle o non seppe resistere una ventina d’anni fa neppure il Corriere della Sera, salvo un editoriale polemico nei riguardi della Procura di Milano firmato dall’allora vice direttore Giulio Anselmi. Che, forse non a caso, avrebbe poi continuato sì a fare giustamente carriera, ma altrove, non a Milano, in via Solferino.

Pertanto non ha poi tutti i torti neppure Napolitano quando, pur dimentico dei propri, lamenta i contributi dati all’antipolitica dalla stampa, anche da quella comunemente considerata più autorevole.

Il Corriere della Sera stona su Napolitano

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