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C’è un bivio lungo la strada del Pd emiliano-romagnolo, chiamato a decidere cosa fare da grande. Il voto di domani, domenica 23 novembre, nella regione “rossa” per eccellenza può segnare infatti lo spartiacque lungo la storia del partitone che ha escogitato il comunismo dal volto buono e operativo: potrebbe avviarsi verso la pensione il vecchio modello di governo incentrato sulla filiera politica Pci-Pds-Ds-Pd che sforna i dirigenti da piazzare ai posti di comando, basato sul controllo del consenso e del territorio, sulla penetrazione nei gangli economici, produttivi, culturali e sociali della regione, sulla confusione e sovrapposizione tra amministrazione pubblica e struttura partitica.

LA SFIDA POST DS

Spedita in soffitta questa declinazione statalista e accentratrice della funzione partitica, per il (presunto) nuovo Pd emiliano ne dovrebbe sorgere una nuova, meno oppressiva, meno onnipresente, più aperta ai contributi della società civile. In buona sostanza, più sussidiaria, con le istituzioni pubbliche magari non più espressione esclusiva del partito, chiamate a disegnare la cornice dentro la quale sono poi i soggetti privati a sbizzarrirsi nel comporre il disegno.

GLI OBIETTIVI DI BONACCINI 

Ma riuscirà Stefano Bonaccini a far compiere questo salto di qualità al Pd emiliano-romagnolo? Riuscirà l’ennesimo professionista della politica, cresciuto a pane e partito, ad avviare un percorso per affrancare il suo mondo da una struttura e un’organizzazione ancora da Prima Repubblica? Potrà un uomo, per quanto bravo e con valide idee, ma che non ha mai svolto una sua professione e ha vissuto e vive soltanto di politica – sostengono nel centrodestra – affrancarsi da un modello di cui è diretta espressione? Detta così, verrebbe da rispondere di no. Ma qualche segnale di discontinuità Bonaccini ha provato a darlo in questa scialba campagna elettorale.

IL DISINCANTO E I NUMERI

La disaffezione e il disinteresse dell’elettorato emiliano-romagnolo nascono anche da questa condizione di limbo. Se il Pd fiore all’occhiello d’Italia per risultati e mobilitazione, alle primarie regionali è riuscito a portare al voto 58mila persone su 75mila iscritti, un motivo ci sarà. Il vero nemico di Bonaccini domani, come dicono tutti, sarà l’affluenza; la sua scontata vittoria non potrà definirsi piena se alle urne si presenterà solo il 50% o poco più degli elettori, ossia 1,7 milioni di cittadini contro i 3,4 aventi diritto. Il 69,98% delle europee di maggio è un miraggio, nonostante questa regione sia stata sempre abituata ad affluenze ancora più alte. Ancor di più il 68,06% delle regionali del 2010 (terzo mandato di Vasco Errani, un po’ di noia iniziava a sentirsi), per non parlare del 76,3% del 2005.

IL PESO DEL CASO ERRANI 

Ci sono poi altri elementi che concorrono a scoraggiare la partecipazione e fare di Bonaccini un possibile presidente depotenziato. Innanzitutto il motivo delle elezioni anticipate, con quella condanna a Vasco Errani per falso ideologico in una vicenda con tratti familistici. Quindi la mancata concomitanza con altre elezioni capaci di trainare l’elettorato. Infine gli scandali, a partire dall’inchiesta sulle spese pazze in consiglio regionale, con una quarantina di consiglieri uscenti indagati per peculato, tra sex toy, viaggi e alloggi in alberghi di lusso e cene fastose caricati sul conto dei contribuenti. Una valanga che ha travolto innanzitutto il Pd, a partire dal suo ex capogruppo Marco Monari. Ciliegina sulla torta, domenica scorsa ci si è messa pure Report, che su Rai3 a una settimana dal voto ha demolito Hera, la multiutility che gestisce i servizi pubblici controllata dai sindaci del Pd, sollevando il caso dei rifiuti tossici sotto la sede bolognese e le nomine di cooptati politici nel Cda dove una poltrona vale oltre 60mila euro all’anno.

Elezioni Emilia Romagna, ecco sfide e incognite per Bonaccini (Pd)

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