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La piccola correzione apportata dall’Istat sulla stima preliminare, che innalza la crescita nel terzo trimestre dallo zero percento iniziale allo 0,1%, non cambia il quadro di fondo: l’economia italiana non riesce a espandersi oltre lo zero virgola, che vuol dire impantanata nella stagnazione tendenziale a parte le fluttuazioni cicliche. Le esportazioni hanno confermato la loro forza malgrado un’economia europea e quella mondiale in decelerazione, i consumi si espandono, ma investimenti e spesa pubblica ristagnano.

E si prospettano anni difficili perché il governo possa usare ancora una volta la spesa in deficit per stimolare la crescita, dopo che la Commissione Europea ha richiesto misure correttive sulla legge di bilancio per riportarla in linea con la raccomandazione di tirare il freno all’aumento della spesa primaria netta e del deficit. Ormai le proiezioni dei maggiori analisti, da ultimo l’Ocse, convergono su un incremento del prodotto nazionale nel 2023 allo 0,7% contro l’ipotesi del Governo nel Def inizialmente all’1% poi ridotta allo 0,8 nella Nadef. La divergenza tra le proiezioni si estende anche al prossimo triennio, con quelle dell’Ocse che scontano una dinamica del PIL inferiore di 0,5 punti percentuali l’anno prossimo (0,7% come quest’anno) e di 0,2 punti nel 2025 (1,2% contro l’1,4% della Nadef).

Attualmente il dibattito sulla politica economica governativa si concentra sull’andamento congiunturale di consumi, investimenti ed esportazioni, mentre al centro dovrebbero porsi le tendenze di medio-lungo periodo, che si basano su fattori strutturali come motore per ottenere un’espansione economica sostenibile nel prossimo futuro. In particolare, un’espansione autopropulsiva che non necessiti di continui stimoli con la spesa pubblica in deficit. In questa prospettiva si scorgono sviluppi insoddisfacenti che fanno dubitare delle possibilità del Paese di mantenere ed accrescere il suo livello di prosperità, se misurato in termini di Pil pro-capite nel prossimo decennio.

La prima fonte di preoccupazione è rappresentata dal declino demografico che porta all’impoverimento di risorse umane, nemmeno compensato dai flussi di immigrazione. Dal picco del 2014 di 60,3 milioni di abitanti si è scesi del 2,5% a 58,8 milioni. Il tasso di fertilità ovvero la media di figli per donna incluse quelle di origine straniera, ha continuato a piegare verso il basso, scendendo dal 1,44 negli anni 2008-2010 a 1,25 figli nel 2021.

Sulla denatalità incidono non esclusivamente le difficoltà di accesso e stabilità del lavoro, perché entrano in gioco fattori culturali, lunga permanenza dei figli nelle famiglie di origine, posticipo della maternità, il restringersi delle fasce dei più giovani e carenze dei servizi per l’infanzia. Invertire la tendenza postula un’estesa gamma di interventi che attenuino le inconvenienze a procreare, come si vede in Francia che con un insieme di misure è riuscita a fermare e rovesciare la denatalità. In questa luce, gli interventi del PNRR sugli asili nido e i benefici disposti per il lavoro femminile restano al di sotto del compito.

In una popolazione in età lavorativa che si restringe è inevitabile che si debba puntare sugli incrementi di produttività, oltre che a indurre al lavoro i troppi giovani inattivi. L’ultima notizia dell’Istat riguardante lo scorso anno e l’evoluzione dal 2014 lascia ben sperare che il valore aggiunto tratto da capitale, lavoro ed efficienza insieme a innovazione nel loro impiego possa salire ai livelli europei. Nell’ultimo anno al potenziamento della produttività del capitale (2,7%) si contrappone il cedimento di quella del lavoro (-0,7%). Nondimeno, rileva soprattutto l’andamento negli ultimi 15 anni, che mostra una dinamica più lenta per il valore aggiunto per addetto (0,5% in media annua) rispetto a quello attribuito al capitale (0,9%) e all’efficienza complessiva (0,6%). L’interdipendenza esistente tra i tre fattori non ha attenuato le divergenze tra gli stessi, ma tutti si muovono a distanza dal ritmo medio europeo e in specie da quello tedesco.

L’altro grande motore della crescita è costituito dall’iniziativa imprenditoriale, dal rinnovamento del sistema delle imprese e dalla sua propensione a investire. Negli anni dal 2015 al 2021 il tasso di rotazione tra le imprese create e le cessate segnala con l’eccedenza delle seconde sulle prime un indebolimento dello spirito imprenditoriale, o se si vuole, una minore propensione ad accettare il rischio di un’intrapresa per competere sul mercato, apportando il nuovo nel sistema imprenditoriale. Quest’evoluzione contrasta con gli sforzi fatti dai vari governi per facilitare l’imprenditoria con semplificazioni e alcuni sollievi dal peso della burocrazia e della tassazione. L’esperienza positiva degli aiuti alle start-up non altera il quadro in quanto di portata minore al confronto con gli oltre quattro milioni di PMI che compongono la maggioranza del tessuto produttivo.

Al tempo stesso, la relativa scarsità di grandi imprese che possano svolgere un ruolo di traino per la crescita del sistema imprese e, di riflesso, dell’economia fa ricadere sullo Stato una sempre più grande responsabilità nell’orientare innovazione e sviluppo mediante incentivi, finanziamenti, snellimenti amministrativi e fiscali, e commesse pubbliche per infrastrutture. Il ricorso a questi strumenti, di cui si è fatto negli anni largo uso, non fa venir meno la necessità di migliorare le condizioni di contesto per svolgere attività di impresa, condizioni che ancora scoraggiano gli investimenti se non in presenza di un sostegno pubblico diretto o indiretto.

In particolare, rientrano nel contesto necessario la parità di concorrenza sui mercati, istituzioni normative e giudiziarie atte ad agevolare innovazione, produzione ed occupazione, un fisco non disincentivante verso l’imprenditoria, e una pubblica amministrazione efficiente e priva di distorsioni. Sono proprio queste riforme di struttura assieme al potenziamento delle infrastrutture che stanno al cuore delle possibilità di successo del Pnrr nel generare crescita duratura, più che i vari interventi di stimolo per la transizione digitale e quella verde. Senza i primi, questi ultimi non sono sostenibili a lungo andare e nel tempo generano nelle imprese dipendenze e distorsioni della concorrenza.

Il primo triennio di attuazione del Piano, tuttavia, non ha evidenziato un sostanziale impatto sulla crescita. L’Ufficio parlamentare di Bilancio ha condotto un esercizio di simulazione degli effetti utilizzando due differenti modelli teorici. Dalle stime risulta che l’impatto sull’espansione del Pil nell’anno in corso, seguendo i due metodi sarebbe stimato rispettivamente di 0,3 e 0,1 punti percentuali in aumento rispetto alle linee di tendenza in assenza del Piano. Gli effetti più consistenti sarebbero spostati nel prossimo triennio, ma avrebbero una dimensione inferiore alle proiezioni del governo.

L’accelerazione del Pil oltre l’evoluzione di base sarebbe stimata secondo un modello nello 0,8% nel 2024 e 2025, seguita da appena 0,2% nel 2026. Secondo l’altro metodo, salirebbe allo 0,9% nel 2024 per scendere rapidamente allo 0,3% nel 2026. Queste stime si fondano su premesse di completa e tempestiva realizzazione delle opere e delle riforme del Piano, una condizione ben lontana dalla realtà attuale che mostra difficoltà e ritardi, ad esempio, a far decollare le opere e a spendere efficientemente le risorse ottenute dall’Ue. La modestia d’impatto finora mostrata in parte non sorprende perché era necessario preparare le misure e i progetti, superare le lungaggini procedurali e attendere che si completassero le opere per vederne i risultati. Gli interventi strutturali richiedono anni per esplicare i loro effetti, una caratteristica che era ben nota agli estensori del Piano.

Il governo è stato altresì costretto a varare provvedimenti straordinari per semplificare ed accorciare le procedure, altrimenti sarebbe stato impossibile rispettare le scadenze. Ha anche dovuto espellere dal Piano gli investimenti chiaramente non realizzabili nei tempi dovuti e concentrare le risorse su quelli più importanti e sul programma Repower energetico. Ma non ha risolto i problemi né della resistenza alle riforme di fondo, né dell’inefficienza nelle spese. Nei campi della giustizia, del fisco, della concorrenza, della formazione, dell’istruzione scientifica i progressi sono lenti e limitati. Si incide solo superficialmente e si lascia spazio dietro le quinte al permanere dei vecchi approcci.

Sulla giustizia, non si vedono ancora giudizi brevi e magistrati equilibrati ed operosi. Sulla concorrenza permangono le posizioni privilegiate nei servizi pubblici e le distorsioni dovute agli aiuti di Stato. Il peso della tassazione e gli squilibri nella ripartizione dell’onere restano. Il nuovo nell’istruzione e nella formazione tarda ad arrivare, mentre poco si fa per colmare il grave deficit di tecnici e competenze qualificate che ostacola l’esecuzione dei progetti del Pnrr. La qualità della spesa e il suo effetto moltiplicatore sul reddito non sono nemmeno verificati sulla base delle concrete realizzazioni. La grande quantità di finanziamenti pubblici, inclusi quelli del Pnrr, che si è accordata al piano delle ferrovie (183,3 miliardi) e alla viabilità (124 miliardi) che ripercussioni avranno per una crescita duratura se le rigidità di sistema permangono? Sugli effetti moltiplicatori degli investimenti pubblici si fa riferimento a studi di genere che si riferiscono ad economie avanzate e sistemi-paese migliori del nostro.

Ad esempio, si sostiene che l’effetto moltiplicatore degli investimenti in infrastrutture e nella transizione verde sia superiore ad uno e al di sopra di quello di altri investimenti. Nondimeno, mentre il Paese si impegna nella transizione verde, aiuti sono concessi ad imprese energivore e a quelle che usano fonti fossili. L’impegno a sviluppare le infrastrutture digitali tende ad essere sterile se la digitalizzazione non si diffonde tra le pmi e nella pubblica amministrazione Alle incoerenze nelle politiche si sommano le differenziazioni istituzionali, che di fatto hanno frazionato la gestione economica del Paese in una gamma di autonomie sul territorio e di comportamenti eterogenei delle autorità locali. Un investitore straniero che decidesse di operare in Italia si trova davanti al problema di stabilire quale sia la disciplina economica e le provvidenze delle varie regioni. Deve fronteggiare anche una legislazione intricata oltremisura e una magistratura insindacabile e non responsabilizzata.

L’attuazione del Pnrr da sola non è in grado di condurre l’economia verso un’espansione consistente e durevole in assenza di un quadro di sistema coerentemente favorevole. Si dimentica che la sfida della crescita si gioca su tre assi:

a) la politica industriale in senso lato, in cui rientra anche ma non solamente il piano finanziato dall’Ue

b) la questione delle istituzioni che condizionano l’evoluzione economica e l’imprenditoria, incluse giustizia, fisco, regolamentazioni, e burocrazia

c) il macigno del welfare in una società in invecchiamento e troppo garantista. Si riuscirà ad avanzare in questo ampio quadro e in quali tempi?

La sfida della crescita si gioca su tre assi. Zecchini spiega quali

L’attuazione del Pnrr da sola non è in grado di condurre l’economia verso un’espansione consistente e durevole in assenza di un quadro di sistema coerentemente favorevole. Si dimentica che la sfida della crescita si gioca su tre punti. Salvatore Zecchini, economista Ocse, spiega quali

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